Di libri e d'altro


«Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra»
(Agostino, Confessioni, XIII)

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Mi chiamo Marco D'Avenia e sono un filosofo.​
O almeno ci provo
In questo blog raccolgo alcune mie recensioni (non accademiche, ma spero sufficientemente meditate: ecco, sono più propriamente delle meditazioni riflessive su alcuni incontri della mia vita che delle recensioni), per lo più di libri, ma anche di musica, fumetti, film e quant'altro. Un po' tutte le Muse, insomma, anzi qualcuna in più.
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Caratteristica comune di ciò che recensisco è l'impatto e lo spessore esistenziale.
Mi piace cogliere l'interiorità degli autori che scelgo o che incontro, sintesi vitale di spirito, anima e corpo, e lo sguardo che hanno sulla realtà. Vorrei portarli alla luce scrivendo queste note.
Sono donne e uomini vivi e normali, che spesso percepiscono cose che altri non vedono, senza per questo essere stravaganti. Al contrario, hanno una comprensione molto acuta della realtà.
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È gente appassionata della vita e del mondo in cui vive. Per questo mi interessano: per affinità. Le loro esistenze sono mosse da un desiderio forte e profondo che li motiva in tutto. Seguono con libertà fatta nuova ogni giorno, il cammino indicato dalla promessa aperta dei propri talenti dato che, come scriveva una persona a me molto cara, «la vita è un cammino per capire che cosa ci fa fiorire o marcire, una continua messa a punto del desiderio». Ascoltando con coraggio la realtà, anche quando spiazza, cercano di dare la risposta migliore e più saggia alla loro irripetibile (e-)vocazione alla pienezza, per quanto possano farlo esseri fragili, limitati e dipendenti.
In genere, sono persone che attraversano la vita con animo libero (che non vuol dire sempre sorridente o spensierato), mai reattivo o risentito, e puntano a ciò che è essenziale nella vita. L'essenziale infatti è visibile ai loro occhi.
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere un'etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina, che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.
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(Jorge Luis Borges, I giusti, (La cifra, 1981)
Quando si incontrano persone di questo tipo, in presenza o attraverso le loro creazioni, si capisce che portano e trasmettono una specie di fuoco, senza neanche proporselo. Per Bukowski, «l'anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci: soprattutto perché provi un senso di benessere, quando gli sei vicino». Li riconosci perché intorno a loro si respira un'aria buona: come si dice a Palermo "fannu veniri u cori" (il cuore si sveglia, viene in superficie, si dilata) e ci si "arricria" (ci si ri-crea). Con loro, le relazioni respirano.
Mi sembra importante quindi parlare di loro, farli conoscere. Raccontarli, perché quando dobbiamo capire e spiegare una vita, inevitabilmente raccontiamo una storia.
Si capisce allora che le loro opere possano stimolare il lettore a intraprendere in prima persona percorsi che portino al fiorire della propria vita. Come scrive Christian Bobin: «in ogni esistenza ci sono alcune persone che ci aprono delle porte. Ovviamente tocca a noi attraversare la porta aperta, oltrepassarla, andare oltre. Però ci vuole sempre qualcuno che ce la apra». Le porte si aprono negli incontri nel viaggio della vita, se sentiamo su di noi uno sguardo speciale, le volte che scopriamo che la storia che un amico ci confida, riguarda la nostra, di storia, risuona in noi e sappiamo immediatamente che è vera; ci svela nuove possibilità. Ci 'co-involge'. Nell'essere 'con', ci 'involve': ci avvolge, ci interessa, ci trascina, in qualche caso pure ci travolge, lasciandoci senza fiato.
Con le loro opere, questi autori possono aiutarci a pronunciare, nella vita e con la vita, la nostra piccola o grande "parola originale", come Dostoevskji chiedeva ai personaggi dei suoi romanzi. Non una parola che si accontenti di ripetere 'a pappagallo' parole altrui, giuste o sbagliate, profonde o banali che siano, o che viva "per sentito dire". Perché, e viene in mente Gilles Deleuze, la peggiore infelicità è quella di dover realizzare sogni che sono di altri. Si tratta piuttosto di quella parola che rivela (prima di tutto a noi stessi) per cosa sta battendo veramente il nostro cuore, che (ci) dice dove si trova il nostro centro di gravità. Abbiamo bisogno di aiutarci l'un l'altro perché possa essere una parola vera. In questo la filosofia per me è stata sempre un aiuto imprescindibile per definire bene le domande essenziali da porre e per spiegare se e perché le risposte che trovo non solo sono autentiche ma sono anche quelle vere, quelle giuste. Comunque non sono Appunti per filosofi. Vorrebbero essere più semplicemente un'occasione per riflettere, assieme e in prima persona, sulla propria vita e capire che cosa ci sto a fare io, irripetibile nome e cognome, in questo mondo.
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​P.S.: non potrei scrivere queste note, se non avessi incontrato sulla mia strada tante persone di questo tipo: amici e colleghi di ogni parte del mondo, parenti, e prima di tutto, una pazza famiglia di due genitori innamorati e sei (me compreso) "caratterini" "fraterni e sorerni", dalla vita appassionata e dai desideri indipendenti, forti e inquieti. Ci lega una storia condivisa, una comune impronta e un affetto profondo che (almeno fino a questo momento 🙃) ha superato le differenze e le distanze geografiche che ci separano, visto che abitiamo in tre zolle continentali diverse. Devo molto alle conversazioni con mia nipote Beatrice (lo sgorbietto nella foto) che ogni settimana con sguardo semplice e inesorabile mi restituisce a me stesso e mi rimette in asse il mondo.
E non dimentico quei fratelli e sorelle nel cuore, con i quali condivido parole e silenzi, risate e pianti, ineffabili entusiasmi e non meno ineffabili dolori, inquietudini e fede, debolezze e, soprattutto, speranza.
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La foto di copertina l’ho trovata sul web e ho subito intuito che, forse perché si trattava di scarpe, calzava a pennello a questo blog. Sin da piccolo mi domandavo quali storie c'erano dietro alle persone che incontravo per strada o che vedevo nelle foto. Anche qui mi sono chiesto: qual è la storia di questo bambino seduto su un marciapiede e perché ha un sorriso così beato? La foto, l’autore è Gerald Waller, è stata pubblicata su Life (ma guarda un po'), il 30 dicembre del 1946, con il titolo Life is a new pair of shoes, la vita è un paio di scarpe nuove. Il piccolo Werfel, spiega la didascalia, ha sei anni, ha perso i genitori e vive in un orfanotrofio a Vienna. Le scarpe che ha in mano sono un regalo natalizio della Croce Rossa e sono il primo indumento nuovo che ha avuto dall’inizio della guerra. Le ha ricevute al bordo della strada, seduto su un marciapiede e non si contiene per la gioia. In effetti era tempo di sostituire quelle vecchie ormai logore con cui ha attraversato le privazioni della guerra. Le scarpe che ha ai piedi, si vede, sono proprio ridotte al minimo per poter camminare così come a lui ormai è rimasto solo lui stesso, possiede solo quello che ha indosso, è ridotto all’essenziale (senza genitori, forse anche a meno dell’essenziale). Se quelle scarpe lo hanno portato umilmente fin dove potevano, quel dono di un incontro buono e inatteso lo aiuterà ad affrontare adesso un mondo nuovo, più ampio di un cortile e diverso. Deve quindi lasciare scarpe vecchie che non sono più adatte e abbracciare con gioia le sue calzature nuove, per camminare più leggero, così come leggero è il suo sguardo rivolto al cielo. Non dimenticherà quelle scarpe usate, ma deve lasciarle indietro, non ci si può portare appresso tutto quello che non serve più. Bisogna saper abbandonare per saper guadagnare.
Mi chiedo che cosa sia successo dopo a quel bambino del 1940, potrebbe benissimo essere ancora in vita con i suoi 83 anni: ha trovato chi si prendesse cura di lui, ha avuto buoni amici, una moglie e dei figli, il lavoro per cui era tagliato? come ha vissuto la sua vita, ha sofferto, ha gioito? è (o è stato) buono, generoso, saggio? è (o è stato) felice come prometteva quel sorriso a sei anni? Ha reso o rende felici altre persone? Non ne ho idea, non ho trovato nessun dato in proposito. So due cose, però. Innanzitutto, quella foto ha vissuto una vita propria che giunge fino ad oggi: lo testimonia chi la vide allora su Life, chi la ritagliò per un album o per incorniciarla o portarla con sé, chi magari ancora oggi la conserva sul cellulare e la posta sui social: tutti commentano come la felicità di quel bambino così sfortunato sia stata un aiuto per affrontare momenti difficili della sua vita o anche semplicemente a non lamentarsi per delle inezie. Ha acceso qualcosa in loro e gli fa piacere condividerlo. Quel sorriso ha raggiunto me allo stesso modo e ha smosso qualcosa. La seconda cosa che ho chiara: di sicuro, in quel momento, a quel bambino è stata donata un’opportunità che va oltre il cuoio e la pelle. La vita, questo posso assicurarlo, rinasce, prosegue e fiorisce con doni di scarpe nuove che ci scambiamo lungo la strada con quanti incontriamo, magari quando qualcuno "si mette nelle nostre scarpe" o noi ci mettiamo nelle sue. Come potrebbe avvenire incontrando le opere di cui si parla negli Appunti e le storie dei loro autori.
Il progetto della foto di copertina è di Lidia Bucci, grande esperta di scarpe