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La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare, Fame d'aria

  • Immagine del redattore: Marco D'Avenia
    Marco D'Avenia
  • 24 lug 2023
  • Tempo di lettura: 32 min

Aggiornamento: 13 nov 2023



Una guida alla lettura


Daniele Mencarelli, romano, è poeta ed autore di romanzi dai titoli fulminanti. Nel 2017 pubblica La casa degli sguardi, due anni dopo Tutto chiede salvezza. Nel 2021, Sempre tornare. Compie in questo modo una trilogia autobiografica che copre all’incirca sette anni decisivi per la sua vita. Un processo di rammemorazione che fa un percorso inverso rispetto alla vita vissuta (l’ordine esistenziale infatti è esattamente capovolto rispetto a quello della pubblicazione), fatto non per rinchiudersi nel passato, ma per aprirsi a vivere la vita. Come scrisse Kierkergaard nel suo Diario «la vita può essere capita solo all'indietro, ma va vissuta in avanti».


La trilogia è scandita in tre tappe. Sempre tornare narra il viaggio di un Daniele autostoppista, travagliato da un profondo dilemma interiore, nell’estate dei suoi diciassette anni, Tutto chiede salvezza è il resoconto di una settimana di ricovero in ospedale psichiatrico per un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) per le conseguenze della sua dipendenza da droghe, e allora di anni lui ne ha 20; la situazione peggiora ancora e la dipendenza "di ripiego" da alcolici lo porta, tra sbandamenti vari, ad accettare un lavoro all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma dai 24 ai 30 anni (La casa degli sguardi copre il primo anno di impiego).

L’ultimo romanzo, Fame d’aria, non è autobiografico, racconta il viaggio di un padre con un figlio autistico da Roma a Ginosa Marina, ma è in perfetta consonanza con i temi e i modi della trilogia che lo precede.


Mencarelli inizia a scrivere il primo romanzo partendo da un’esperienza straordinaria di bellezza vissuta in mezzo all'apice di un dolore lacerante in una vita ormai in stallo. Un’episodio di conversione che lo porta a ripercorrere narrativamente il suo passato fino a tornare alle proprie origini. Ogni libro accentua un aspetto in modo particolare: la bellezza come epifania captata da uno sguardo (La casa degli sguardi), il desiderio di salvezza (Tutto chiede salvezza), la vita come viaggio condiviso (Sempre tornare) (1).


Daniele Mencarelli è lo scrittore dello sguardo e della bellezza che salva, nel viaggio condiviso della vita reale.



Un domanda radicale

L’anima dell’intera narrazione è l’esperienza esistenziale, semplice e profonda, di una contraddizione vissuta in prima persona. La contraddizione non si limita semplicemente a un dilemma teorico: è il "cor inquietum" di Agostino, è carne che si lacera. È tremendo vivere la grandezza dell'amore e sentire allo stesso tempo lo sprofondo del dolore, della morte e in ultimo del nulla che quello stesso amore inghiotte inesorabilmente. Con il suo animo da poeta, sperimenta vividamente la bellezza e intuisce al contempo che è destinata ad annullarsi nella morte. Un’abbraccio che stringe d’affetto preannunzia sempre il dolore della separazione, se non dell'addio. Sono quelli che ama, prima di tutto i suoi genitori, che destano in lui l'inquietudine: vorrebbe proteggerli dalla morte e non sa come fare, come sottrarli a quel movimento inesorabile verso il nulla. Allora, se non si riesce a proteggere, a salvare dal male, allora tanto vale lasciarsi andare, assecondarlo, distruggere anche se stessi. In questo modo finisce paradossalmente per far danno proprio a quelli che ama: riduce i genitori che vogliono aiutarlo allo stremo e oltre lo stremo delle forze, all’abulia, al bordo del suicidio. Quanto più procede nel suo viaggio, tanto più la contraddizione diventa consapevole e lacerante. La vede come un duello nel fondo della realtà. La avverte in chi la prova come lui, soffre soprattutto per quelli che fanno come se non ci fosse. L’unica soluzione per sospendere il dolore gli sembra la distrazione, la "dimenticanza". Da qui, la sequela di dipendenze dalle droghe che lo conducono a un trattamento sanitario obbligatorio in un ospedale psichiatrico e quindi al “ripiego” nell’eccitazione e nell’oblio dell’alcol. Si ritrova sempre più solo, alienato dai familiari, dall’amore, dagli amici. Ma nulla estirpa la sua radicale richiesta di salvezza, anzi. .


Un percorso durissimo se vivi dentro la contraddizione radicale tra l’amore e la morte, l’essere e il nulla, tra il senso e il caos, il bene e il male, il positivo e il negativo. Tra Dio e il vuoto. È una condizione che impone una scelta altrettanto radicale, L’indifferenza, il far finta di nulla, il danzare spensierato sul baratro del nulla, non sono ormai alternative possibili, non sono umane. Assecondarle vuol dire rinunciare alla propria anima, perderla. E comunque prima o poi la distrazione riconsegna al dolore ed esige pure gli interessi. Perché devi risalire, devi ricostruire da un fondo che è sempre più in basso, C'è molto Kierkegaard in Mencarelli: alla base dell’esistenza umana c’è sempre una scelta decisiva, un aut-aut inaggirabile di cui è motore un’inquietudine ricorrente, l’esperienza di un vuoto che vuol essere riempito, di un’assenza che chiede una presenza di salvezza già in questa vita, adesso.


Ovviamente, questa sua condizione lo farà cadere direttamente nelle braccia di neurologi, psichiatri e psicoterapeuti. La sua inquietudine viene attribuita a una causa “ambientale”, alla storia familiare o alla genetica; viene diagnosticata come patologia psichica da risolvere (almeno provvisoriamente) con terapie, integrando le molecole mancanti, stimolando quelle pigre. Trattando il sintomo da causa definitiva, senza andare oltre. Le medicine si rivelano solamente palliativi provvisori. Lui offrirà molto per la "medicalizzazione" del suo disagio. Senza minimamente negare l'utilità dei farmaci e delle terapie, lamenterà piuttosto l’anestetizzazione della sua domanda esistenziale sulla realtà, che è esattamente il nucleo ultimo e irrinunciabile di ogni essere umano e che lui vive in modo radicale. La medicina, portata dalla ricerca al massimo della sua efficacia, deve però sempre essere messa in mano all’amore, la risorsa radicale unica che cura questo “male di vivere” radicale (2). Bisogna mettere in comunicazione queste due radicalità.


Lo sguardo

Il vuoto interiore si esprime nel giovane Daniele in uno sguardo speciale sul mondo. La realtà gli si svela prima di tutto visivamente, le persone le capisce guardandole. È lo sguardo che desidera che guida la ricerca, che incalza la vita, che diventerà lo spazio per accogliere la salvezza. Tutta la trilogia (ed è particolarmente evidente in Sempre tornare) è centrata sullo sguardo, sul volto, sugli occhi, e sul sorriso, che allo sguardo è sempre strettamente connesso. La fenomenologia dello sguardo di Mencarelli ne coglie le sfumature più varie. Gli occhi sono vivi di luce, si consumano, si spengono, diventano vuoti d’assenza, non hanno pupilla, sono ciechi, sono morti. Guardano il vuoto. Sono burroni profondissimi. Soffrono e gioiscono per ogni tipo di emozione, per la pietà e per la rabbia. Frugano. Sognano. Esibiscono le qualità di chi guarda, svelano quelle di chi è guardato. Agiscono. Lavorano. Parlano. Colpiscono, aggrediscono, schiaffeggiano, tirano sassi. Pregano. La morte è un fatto di occhi, è una mano premuta sulle palpebre. Ancora più in profondità: gli occhi sono famiglia, accolgono la vita. Ricevono e custodiscono le cose e le persone. Il peso del male, lo spessore del bene.


Lo sguardo di Daniele non è mai distratto, è attento, attivo, prevede: incontra una persona già con dentro una domanda sulla storia che c'è dietro a quella faccia, proprio come fa per prudenza chi carica un autostoppista (per questo Daniele, al bordo della strada, è così attento a “preparare la faccia” ad uso degli automobilisti). Quando arriva al contatto di presenza, per prima cosa "scannerizza" la persona, occhi, sorriso, volto. Poi propone lo scambio reciproco dei nomi, per instaurare un a tu per tu essenziale. A volte c’è una scintilla, a volte la cosa muore lì. Man mano che si sviluppa una conversazione personale, uno scambio di narrazioni, lui conferma o rivede le sue ipotesi biografiche. La confidenza verbale è sempre misurata dallo sguardo reciproco, dal muoversi degli occhi e della bocca che estraggono la vita dal volto dell’altro, quasi a toccarlo, emotivamente ed empaticamente, per dare spessore e pienezza alle risposte «Ognuno prende fra le mani il viso dell'altro, restiamo a guardarci, a incidere nella memoria questo momento».

Paradossalmente è come un cieco che con le dita ricostruisce toccandolo il volto della persona che ha davanti. Solo che lui ci vede benissimo e "tocca" con gli occhi. Non stupisce guardando i video dei suoi incontri, che il volto “reale” di Mencarelli - che qualcuno ha definito “pasoliniano” - sia modellato per esprimersi e sollecitare, per interagire. Bisogna saper “lavorare la propria faccia” e lavorare sulla faccia altrui.

Nella conversazione gli sguardi si incrociano, ci si riconosce, si legge di sé nell'altro «come leggere parole scritte sul proprio viso». Nell'incontro personale ci si può comprendere e restituire a vicenda alla vita.


Gli sguardi muti degli animali, addirittura anche quelli, comunicano qualcosa. Cani, gatti, uccelli, i loro occhi sembrano saper tutto di noi e dei nostri travagli - «quanta compassione dobbiamo fare alle bestie» -, in un modo misterioso che loro non possono comunicarci a parole perché sono stati creati apposta come oracoli silenziosi ai bordi delle strade.


Daniele è consapevole di avere avuto da sempre questo sguardo non comune sulla realtà, uno sguardo che è per lui un vero compito, una vocazione. «Io sono nato per vedere cose. Questo viaggio, la mia vita, esisto per questo». È benedizione e allo stesso tempo, ovviamente, condanna. «Ho paura di come guardo le cose». Le cose gli «rimangono incastrate negli occhi». Non è facile reggere il peso: «chiudetemi gli occhi, il cuore, perché non ce la faccio più a soffrire così per quello che vedo, sento», Il peso prima di tutto degli altri: «vorrei avere una corazza, un'armatura del miglior ferro, capace di tenermi distante dalle cose. Vorrei non disperarmi per la disperazione degli altri, non sentire la madre di Giorgio come mia madre».

Lo sguardo intenso lo ha condotto allo sfinimento, «fino a vent'anni sono riuscito a tenere a bada lo sguardo che mi è toccato in sorte, poi tutto è esploso, i nervi hanno ceduto sotto il carico continuo». E lì appunto sono arrivate le droghe e l'alcolismo.


Il viaggio e gli incontri

Proprio questo sguardo assetato di salvezza, «questa visione», «impone un movimento, (...) mette in viaggio». «La curiosità in me agisce come una forza incontrollabile, una pulsione vera e propria». Ognuno dei quattro romanzi di Mencarelli è la cronaca di un viaggio: due settimane di autostop liceale, un’inattesa sosta in un paesino sperduto; due sono peregrinazioni “al chiuso”, tra le stanze di un reparto psichiatrico e in mezzo ai padiglioni di un ospedale.


I viaggi, prima ancora che metaforici, sono fisici, reali. E viaggiare, come attività e come metafora della vita, vuol dire incontrare persone vive. Il titolo di un album di Vinicius de Moraes recita «la vita, amico, è (» proprio questo: «) l’arte dell’incontro», evidentemente una massima condivisa all’interno di una conversazione a due, di un amicizia (2). In questi viaggi Daniele è per vocazione catalizzatore di senso che mette in evidenza le motivazioni ultime e penultime dei suoi compagni. Tutti quelli che si incontrano, per quanto sembrino diversi, a livello di idee, convinzioni e posizione raggiunta, più o meno stabile, soddisfacente e soddisfatta, sono incamminati nello stesso viaggio della vita, tutti funamboli in bilico più o meno consapevole tra un desiderio di salvezza e la voragine del nulla: «me sembra d'esse l'unico a rendese conto che semo tutti equilibristi» (c'è molto romanesco nei dialoghi dei romanzi). Negli incontri si comunica a partire da questa base essenziale. Il ruolo di Daniele è anche quello di rendere consapevoli “per presenza”, per contatto, per amicizia. A tu per tu, nell'abitacolo dell'automobile che ti raccoglie. Per aiutare a “leggersi”, per scoprire il proprio valore o per mettersi o rimettersi in cammino.



Il viaggio ha un punto di partenza, una meta ed è adesso. È un equilibrio continuo tra il radicamento nel presente, il movimento verso il futuro e il passato dal quale siamo generati. È la consistenza della realtà quella che mette tutto in asse. Il passato ci precede, è, nel bene o nel male, origine, sicurezza, sosta. È presente nel viaggio come nostalgia, desiderio buono che ricorda una casa accogliente ed è matrice di crescita. Ma può anche essere nostalgia cattiva, un peso, qualcosa a cui ci si ferma perché memoria incarnata di dolori che non si riescono a superare o anche come un età dell'oro alla quale il desiderio rimane ancorato quando la vita si blocca o si evolve in nuove sfide. Lungo il viaggio a volte bisogna saper tagliare ponti, buttare valigie ormai inutili, bruciare case, abbandonare automobili scassate. alleggerirsi. Viaggiare leggeri è una fortuna ed è un regalo di libertà a se stessi.

Stesso discorso vale per il futuro, che può essere tanto speranza che alleggerisce o nell'immaginazione un peso che schiaccia o promette irreali evasioni magiche.


Nella convivenza con la contraddizione, nella difficoltà mendicante, si viene soccorsi e sorretti volta a volta da reti fragili e a volte improbabili di gente imperfetta. Cinque sventurati ricoverati in un reparto psichiatrico, di cui uno catatonico e un altro praticamente autistico, che ripete inconsapevolmente l'invocazione significativa e misteriosa «Maria ho perso l'anima! Aiutami Madonnina mia!». Oppure una squadra di operai e pulitori che mischiano saggezza, dignità, sogni, frustrazioni e piccole miserie. Gente che anche quando ha fallito o si è incagliata, ha ugualmente qualcosa da inaspettato da dare.

Insomma, gli altri non sono mai un’opzione o un accidente della salvezza, anche quando sono "niente". La vita è un’ospedale da campo nel quale ci si aiuta come si può, che si sia feriti o infermieri, professionisti o dilettanti dell’esistenza. È «una trincea aperta da un bisturi, invisibile ai sani».

Alcune persone sono dei riferimenti di bontà, magari discreti e silenziosi. Spesso così sono i genitori. Mencarelli è molto attento agli “amori verticali”, come quello tra genitori e figli, molte volte amori gratuiti, affidabili e pazienti anche quando vulnerati e stanchi. Madri e padri che resistono, figli che si fanno carico dei genitori. Anche se padri e madri possono arrivare a un punto di rottura. Come è accaduto proprio a casa sua.


Un’attenzione particolare Mencarelli la rivolge a quelli si trovano ai margini della strada per scelta o per i casi della vita. In tutti i romanzi, si incontrano questi personaggi. La loro inadeguatezza, la loro solitudine, la loro povertà, a volte la loro sporcizia, disturbano, danno fastidio. Irrompono nella vita e provocano istintiva paura. Non è una reazione esclusiva di alcune persone, legata magari a determinate convinzioni politiche: a volte, anche chi ha convinzioni politiche o sociali più “inclusive” si nasconde dietro i ragionamenti, la dedizione filantropica, spesso delegata ad altri, lodevole ma che evita il disagio dello sguardo e del contatto diretto. Sembra che sia proprio una categoria dell’umano far fatica ad aprire la porta (fisica e metaforica) della propria casa. C'è una (misteriosa e istintiva) paura radicale di essere violati e spodestati, di esser derubati di tempo e risorse, consegnati a momenti di non controllo della propria esistenza, di condividere, di essere messi in discussione nelle proprie convinzioni, nelle proprie sicurezze o comodità, nella propria a volte insicura identità. Anche chi è scartato è una categoria universale dell'umano: Il Daniele liceale fa esperienza della povertà, del bisogno estremo, della solitudine. Ma gli è sufficiente per capire che sono proprio loro che ti cambiano, anche perché, mettendoti nei loro panni, comprendi che anche in te c'è un bisogno ultimo che rende dipendenti dagli altri e mendicanti, a rischio di perdere tutto, a volte proprio perdendo tutto. Che in situazioni difficili possono lasciarsi andare. E, nel poco o nel mondo, bisognosi di essere aiutati. Avere un tetto sulle spalle, fisico o metaforico, è sempre una condizione precaria. Già l'antichità aveva capito che la pratica dell'ospitalità, riconoscere chi non aveva casa come un se stesso da aiutare e proteggere, era un segno distintivo dell'umanità delle persone e della collettività.



Il pentimento e il perdono

Anche per questa ragione, nel corso del viaggio, lo sguardo Mencarelli lo rivolge sempre più a se stesso. Certamente, è più facile dare agli altri la colpa delle proprie sventure e frustrazioni. Cercare il colpevole fuori di sé, individuare il capro espiatorio. Anche questo è un universale umano, come ha mostrato René Girard. Però la pagliuzza nell’occhio altrui rischia di nascondere la trave che c'è nel proprio. In fondo, questo giustifica il non voler ricominciare. Anche questa può essere una fuga.


Daniele non vuole giudicare gli altri. Il giudizio ultimo lo rivolge proprio e prima di tutto a se stesso. Capisce che è proprio lui quello che sta distruggendo perché non può proteggere. Ha fatto del male, sta facendo del male. Su questo non ci sono dubbi, non è colpa di qualcun altro. Lo ha fatto a volte con l’animo di fare il bene. A volte lo ha fatto senza nemmeno rendersene conto. Quindi in lui ci sono due cose: un’inclinazione distorta al male e c’è un male consapevolmente assecondato. Deve capire che cosa è questa spina che c'è nel fondo, che richiede e resiste alla salvezza. Con questo deve fare i conti con serietà, se vuole rimettere la vita in sesto. Deve prendersi il male sulle spalle e chiedere perdono, lui, in prima persona. Per accogliere veramente la salvezza a cui anela deve riconoscere la sua vulnerabilità, la sua “colpa” e le “sue” colpe. Questo è il punto di partenza, ma non è la soluzione. Da soli non ci si stacca dal giudice più severo, sé stesso. La salvezza non è frutto di sforzo: da solo, anche con le considerazioni interiori più sofisticate e acute, non può salvarsi e rialzarsi. Ci si salva a vicenda e viene salvato solo chi è consapevole di aver bisogno di salvezza. Sono gli altri che ci regalano la salvezza. Chi capisce che ha bisogno di chiedere, di essere accolto e tangibilmente perdonato anche se questo avviene grazie a persone imperfette e a volte improbabili. Il perdono ha bisogno di confessare e di confessare ad altri uomini : «in questo momento ho bisogno di altri esseri umani, anche se pazzi, che mi accolgano presso di loro, che sappiano aprirsi in parole, sorrisi». Ha bisogno di una tangibile parola di assoluzione, di una carezza, di un incoraggiamento (4). Che lo generi, che lo ri-generi.


All’uomo fragile, serve un tribunale di fragili, di persone che si riconoscono reciprocamente la propria povertà e che per questo possono riconoscere, perdonare, aiutare. Restituire a se stessi.


«A parte la mia famiglia, che conosce, e subisce, nessun altro è al corrente della mia vera natura. I medici non fanno testo, ovviamente. In realtà, c’è anche qualcun altro. Me ne rendo conto solo ora. Sono i cinque pazzi con cui ho condiviso la stanza e questa settimana della mia vita. Con loro non ho avuto possibilità di mentire, di recitare la parte del perfetto, mi hanno accolto per quello che sono, per la mia natura così simile alla loro.

Con loro ho parlato di malattia, di Dio e di morte, del tempo e della bellezza, senza dovermi sentire giudicato, analizzato. Come mai avevo fatto prima. Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare. Dal corridoio mi fermo a guardarli. Eccoli, ognuno nel proprio angolo di stanza, indifesi di fronte alla propria condizione, di esposti alle intemperie, di uomini nudi abbracciati alla vita, schiacciati da un male ricevuto in dono. I miei fratelli»



La prova della realtà

L’urgenza del dilemma radicale gli chiede di cercare la realtà allo spasimo, di non fuggirla. Di non sottrarsi all’esperienza.«Non ho chiuso la porta a nessuna esperienza, per quanto stravagante. Mi sono cercato dappertutto, dentro sedi di partito, chiese, luoghi destinati a ogni sorta di depravazione. Ho provato ad aprire porte invisibili e per farlo mi sono fatto aiutare da ogni droga, lecita e illecita. Ci sono stati momenti di appagamento, ma poi tutto è scappato via, e io dietro, all’inseguimento».

Daniele entra dentro questa realtà, che è «dove sono piantati i (suoi) piedi». Se ne lascia coinvolgere «con ogni cellula». Accetta, lui fragile e sensibile, un impiego nel cuore ultimo del dolore umano, quello dei bambini malati, a volte terminali. Condivide quella durezza con persone vive e concrete, con nome e cognome, che guardano alle stesse cose.

Per questo motivo, la scelta del racconto autobiografico non è mai un avvitamento su di se, perché sa che «il dolore più grande per un uomo è affogare nella propria mente».

L’uomo per natura non è fatto per un solipsismo. La richiesta di salvezza avviene sempre quando la realtà è portata a tensione estrema e la si vuole proprio per quella tensione reale, per quella vita concreta.

D’altra parte, è anche vero che la vita può apparire più dura a chi si avvita su se stesso, perché non c'è nessun test di realtà. La realtà crea sempre dei contrappesi, fa vedere che può esserci qualcuno a cui chiedere aiuto, da cui avere una mano per rialzarsi. La realtà è il luogo in cui si impara a chiedere e a offrire, in cui l’io diventa reale, l’io diventa se stesso proprio nell’incontro con gli altri.



La poesia e la scrittura


E qui si arriva alla poesia. La realtà Daniele l'affronta con sguardo di poeta. Questo dono è per lui continua materia di riflessione. All’epoca del TSO era già conosciuto nel mondo della letteratura, aveva pubblicato su riviste, c’era una raccolta in stampa. Il posto al Bambin Gesù lo ottiene grazie al mentore della sua raccolta. Proprio a lui confesserà che la forza della poesia in quanto tale è sproporzionata rispetto al male radicale. Non è compito della poesia salvare. La scrittura lo accompagna, questo sì, nel processo di articolazione della realtà, di purificazione dell’io. Per questo non è convinto che le droghe aiutino l’ispirazione artistica, perché allontanano dalla realtà, assorbono la libertà e la creatività. Quando era sotto effetto di sostanze non ha mai scritto.


La poesia è una chiamata e un impegno che gli esige il coraggio di guardare la realtà dritta negli occhi, per svelare quello che sono veramente le cose. Non è che la poesia fa vedere cose che altri non vedono. Semplicemente, mostra le cose nella loro vera grandezza, come i bambini che vedono tutto più grande rispetto agli adulti. «Scrivo per dovere di testimonianza della grandezza». La poesia deve celebrare la grandezza. La grandezza non si è estinta, è la dimensione che mostra l'umanità in modo vero. Rivela la Grandezza. Anche quando il poeta guarda cose minime, il suo non è mai uno sguardo minimo perché è sempre fissa ultimamente sulla grandezza di Dio (o dell’assenza di Dio).


La poesia è la sua vocazione. In tutti c'è una domanda ultima. A lui è dato di viverla in modo più intenso e di aiutare gli altri ad affrontarla. Come tutte le vocazioni, la poesia è un dono e un servizio. Lui serve la parola poetica. La poesia, per svelare gli alfabeti della vita, esige un'impegno costante per non venire a patti, per scolpire via le scorie rendere lo sguardo essenziale. Ed è un'officina artistica, che in lui si declinerà nelle forme diverse della prosa, dei versi, della preghiera, della sceneggiatura, della comunicazione verbale. È talento faticoso e allo stesso tempo testimonianza al servizio degli altri, dei compagni di viaggio. Il poeta, servendo la parola, serve la realtà, la grandezza e la bellezza, e quindi serve la vita degli uomini.


Una piccola parentesi: alla radice della sua esperienza poetica c’è una scelta assoluta e inderogabile tra amore e morte, senso pieno e caos che gli vivono dentro. La poesia è spietata nello sfidare questa contraddizione. Eppure Mencarelli, radicale nel fondo, a partire da questa radicalità senza compromessi, nel suo cammino pratica sempre un delicata mediazione, nella logica di un continuo et.. et..., offre una saggia meditazione e composizione delle saggezze degli suoi incontri. In altre parole, Daniele Mencarelli è un fanatico dell’uomo ma non è mai un uomo fanatico.


In questo senso può ricordare Romano Guardini, pensatore esistenzialmente radicale come i suoi amati Kierkegaard e Dostoevskij. Nella giovanile e acerba Opposizione polare dichiara tassativamente che tra bene e male c'è radicale contraddizione, l’uno non può essere l’altro. Non ci può essere equilibrio a questo livello ultimo dell’essere, o si sceglie l’uno o si sceglie l’altro. Scegliere il bene è scegliere la vita. La saggezza dell’uomo che scaturisce da questa scelta consiste poi sempre nel trovare un equilibrio tra quelle che sono le polarità opposte della vita, perché la vita che pulsa e si dilata, quella sì è sempre un saggio equilibrio di polarità contrarie e mai contraddittorie. La vita è assieme inspirare ed espirare, conservare e crescere, custodire e rinnovare, è dimora e avventura. Non è mai uno solo degli estremi. pena a morte. La radicalità sulla scelta e sui valori non è mai in contrasto con la mediazione nel concreto. Chiusa parentesi.


La bellezza e la salvezza

Nello sguardo poetico (poesia direi che qui ha un significato più ampio, il respiro di umanità di ogni uomo di ogni tempo) si testimonia la richiesta radicale di salvezza che sale dalla realtà tutta. Una creazione che soffre delle doglie di un parto che ogni giorno si compie.

Lo sguardo del poeta, raffinato nella povertà e nel pentimento si fa ancora più attento. Il comandamento primo dello sguardo è «non chiudere gli occhi». Nella sua indigenza veglia in attesa di una bellezza che si palesi: «la bellezza è come l'alba. Accade ovunque. Vederla, o negarla, non dipende certo da dove sono piantati i nostri piedi. Quello che vado cercando di capire è come l'alba. Accade ovunque».


La bellezza, guidata dalla nostalgia buona, tocca il nucleo della realtà. «Io credo che gli artisti, come certi matti, abbiano dentro di sé il seme di un ricordo lontanissimo, qualcosa avvenuto prima di tutte le storie. È la bellezza la scintilla di tutto. Io, ecco, credo che in certi uomini sia rimasto un ricordo, sgranato, finito nel subcosciente. Questi uomini guardano tutto per come era veramente, prima di quella cosa che è successa, e che ha cambiato tutto […]. Alcuni uomini, non so se benedetti o maledetti, scorgono nella bellezza il suo valore originario. Parlo del paradiso. Perché questo era il paradiso. Ma noi abbiamo peccato, e così è arrivata la morte, il tempo. Non lo sanno questi uomini, ma la nostalgia che sentono di fronte alla bellezza è nostalgia di quel prima, del paradiso. Di Dio».


Per arrivare alla bellezza, bisogna saper attraversare la colpa, innanzitutto la colpa originaria che ci ha deviati tutti dal bene, distorcendo le nostre azioni, pur rimanendo in noi una eco profonda.


«Scomodare il paradiso in terra. Il peccato originale. Cosa dire? Ma non sono proprio io a desiderare un significato per tutto? Se fosse proprio questa la radice? Piantata talmente a fondo da sentirla senza poterla vedere. Perché non posso negarlo a me stesso. Io quella nostalgia la sento. La vivo. Come vivo l’incapacità di accettare il tempo che passa, di sentirlo posticcio rispetto a tutto quello che nel mio cuore vuole vivere per sempre.Mi ritrovo nuotatore sospeso nel mezzo di una fossa oceanica: io, puntino di vita senza approdo alcuno, sotto di me chilometri di acqua nera, gelida, pronti ad abbracciarmi per sempre».


La bellezza si da come epifania in momenti di grazia. Che sospende a un livello nuovo dell'umano e che rende essenziale lo sguardo. Perché «il cuore della bellezza è una cosa semplice».


L’esperienza della bellezza non è solo un compiacimento estetico o intellettuale, è vita che tocca altra vita, è sempre apertura a qualcuno. «Quello che ora mi esplode negli occhi, lo spettacolo di questa serata che volge al suo compimento dentro la notte, diventa alimento per una parte di me che ancora non conosco, ma che c’è, esiste. Non so come. Ma la bellezza c’entra. Dentro ogni colore acceso, a ogni battito di ciglia che rinnova lo stupore, io sento qualcosa, come un nome che chiede di essere trovato, e pronunciato. Dentro la bellezza ci abita qualcuno. Come ti chiami? Siamo soli tu e io: esci fuori. Non lo dirò a nessuno». Questa bellezza qualcuno potrà mai donarla in questo mondo in modo che ci salvi?





Chi è che salva? Dio e/è la salvezza?

La domanda radicale diventa: chi è il tu che sta dietro alla bellezza? Chi è in grado di salvare? Ci si salva a vicenda tra uomini fragili. Di certo. Ma è sufficiente questo per sottrarsi al nulla? Evidentemente no, uniti esistenzialmente in un abbraccio di solidarietà, rimaniamo pur sempre naufraghi su una zattera. Dopo il perdono umano dell'ospedale psichiatrico, Daniele ha continuato con le dipendenze. L'accoglienza della squadra degli operai del Bambino Gesù non lo ha sottratto all'alcol e tanto meno all'inquietudine. La semplice solidarietà umana non sconfigge la morte, non spiega fino in fondo per quale motivo "dobbiamo" salvarci a vicenda. Tutto rimane provvisorio. Neanche la salvezza promessa dalla medicina o dai progetti ottimistici della gestione manageriale della vita, danno un risposta di senso ed evitano il baratro del nulla. Sappiamo che neanche la poesia da sola può farlo (5). Salvezza rimane anche oggi una promessa religiosa e come religioni si configurano spontaneamente la scienza e la tecnologia, l'organizzazione economica e la sublimazione estetica. Che tra l'altro sembrano dissolvere nell'impersonalità la realtà individuale di ogni uomo.

Pare che solo un altro io possa salvare. Chi è allora il tu della bellezza? Salvezza è forse il nome di (un) Dio? Mencarelli punta al duello finale con la morte nell'agone di un ospedale pediatrico e deve per forza chiedere conto a Dio.

Il Daniele che inizia la sua ricerca non è un tipo particolarmente religioso. Come è frequente esperienza nella Roma dei papi, la religione è “il Vaticano”, il mondo autistico e rituale dei preti che eviti e biasimi e a cui (assieme al politico) chiedi aiuto per un lavoro o un posto in ospedale. Quando Dio interviene nella vita della sua famiglia o nei suoi ragionamenti spontanei è perché è successo qualcosa di brutto, di cui lui è in un modo o nell'altro artefice: che cosa ho fatto di male perché Dio mi punisca?

Allora si prega per ottenere il favore di Dio. È un tratto dell’umano immaginare che Dio sia colui che amministri i castighi nell’equilibrio di un ordine universale. Addirittura nell'antichità la volontà degli dei poteva essere arbitraria, potevano essere suscettibili, favorire alcuni, invidiare altri, mettersi in competizione con gli uomini, essere clementi o vendicativi e quindi andavano placati o ingraziati. Erano divinità di città e di nazioni in conflitto. Un Dio di questo tipo non ha molto a che fare con la salvezza, al più con la lotta per sopravvivere.


Già il Dio giusto e severo del Vecchio Testamento si mostra vicino al popolo ebreo e lo protegge prevenendo le sue richieste. A lui si rivolge con fiducia (e non con paura) l’infelice nei Salmi (che pur chiede vendetta sanguinosa sul nemico idolatra).

Ma è possibile che Dio abbia per l’uomo il volto di qualcuno da cui diffidare, addirittura di un nemico di cui aver paura? In fondo, alle origini, Satana convinse Adamo ed Eva a dubitare delle intenzioni di un Dio geloso del suo potere. E pare che questo dubbio si risvegli ad ogni generazione, per ogni persona, ogni volta che riapre gli occhi al mattino.


La “svolta” del Padre Nostro rivela esattamente la misericordia, la prossimità, la cura paterna di Dio per l’uomo. Che arriva a donare suo Figlio. La Chiesa "funziona" sulla terra solo quando è prima di tutto famiglia prossima di peccatori (che alle origini si chiamavano tra loro “santi”) in cui si vive la misericordia per essere misericordiosi con gli altri. Ma è purtroppo qualcosa che gli stessi cristiani fanno fatica a concepire o a reggere nel tempo, per tornare alla tentazione originale della diffidenza, alla paura e ai contratti pattuiti col Carnefice. La salvezza deve sempre ritornare in questo mondo.


La domanda radicale che si pone a Daniele in mezzo a viaggi imperfetti, a un ospedale psichiatrico e soprattutto nell’immenso dolore innocente del Bambin Gesù, interroga il mistero di Dio. Perché lasciare che avvenga tutto questo a dei bambini innocenti e inconsapevoli? Sarebbe Dio a dover essere messo sotto accusa, lui che si dovrebbe punire. È lui, appunto, il carnefice. Altro che Padre. Di Dio bisogna diffidare.


Eppure, paradossalmente, proprio nelle viscere ultime del dolore, il desiderio di salvezza gli esige un orizzonte di speranza (pur nell’incomprensibilità del dolore innocente). Ci deve essere un senso misterioso di tutto quel dolore, sennò veramente l’unica è sprofondare nel nulla e nella disperazione. Allearsi con la distruzione e dell’eutanasia della specie. La domanda radicale apre uno spazio di speranza, di attesa e di preparazione alla salvezza. Mostra in controluce una cornice di senso, postula un misterioso amore che vinca la morte e ricacci il nulla nel nulla. Ma se c'è, ancora non risponde, ancora non gli risponde.



Ancora una volta Daniele, fedele alla realtà, non fa sconti alla serietà di una domanda formulata nella contraddizione della carne. La salvezza, o è in questa mia carne viva o non è. E così come incalza la realtà, così cerca di mettere Dio alle strette, se la vede direttamente con lui, in un confronto a tu per tu su quello a cui tiene di più, alla domanda che per lui ha senso e prima ancora da senso al desiderio di proteggere efficacemente gli altri. Perché si combatte per ciò che sta veramente a cuore. E proprio per questo ha accettato di scendere nell'abisso del dolore innocente.

È arrivato, onesto ma esausto, dove l’umanità è rifiutata, scartata, ripugnante. Al punto più basso. Capisce nel suo umano, pur condiviso, non c'è qualcosa che sappia affrontarla o abbia la forza di riscattarla.


«All’altezza della vetrata liberty stazionano due ragazzi, la madre tiene in braccio un bambino mentre il padre gioca con lui, gli fa vedere la fontana del giardino interno, intanto con smorfie e linguacce fa ridere il figlio. Quando sono a non più di un metro da loro i due genitori si voltano, e con loro il bambino. Il passo perde la cadenza, così come il respiro. Il piccolo avrà tre anni, a parte gli occhi il suo viso non esiste. Al posto del naso, la bocca, ci sono buchi di carne rossa. Schiaccio gli occhi sul marmo del pavimento, gli sfilo a fianco senza più guardarli. Nel magazzino, mentre preparo il carrello, arrivo alla certezza di essere arrivato a saturazione. Basta. Con quest’ospedale, con tutti i bambini malati, sciancati, informi, morti. Basta. Mi fumo una sigaretta, poi un’altra, perdo tempo sperando che quei due ragazzi e il figlio sfigurato se ne siano andati»


Questo è l'atto ultimo della resa, l'abbandono completo. Il «Padre mio, perché mi hai abbandonato?» sulla Croce. È la morte di Cristo e la fine della speranza. Il funerale di Dio. La sua resa al nulla. Eppure.


Eppure, «le risate del bambino arrivano prima di tutto. Sono ancora lì. Ora però non sono da soli. Davanti a loro c’è una suora, è anziana, piegata in avanti, il suo viso sfiora quello tremendo del bambino. «Te sei il bello di mamma e papà, vero?». Prende una manina e la bacia, lui forse per il solletico scoppia a ridere, la suora non avrà meno di ottant’anni, ha il viso paffuto, bianco come il latte. «Allora non sei solo bello, sei pure simpatico, ti piace così?». E ripassa la manina sulla sua bocca, il mento, per il piacere di lui. Poi la suora si drizza, guarda il padre e la madre. «Ma non sentite che risata che c’ha? Questo dentro non ha l’argento, ha l’oro, l’oro vivo». Lo bacia, incurante del suo viso, di tutto. Continuo a spingere il carrello con secchi e scopettoni. Sono stordito, non riesco a capire, decifrare. Ho visto qualcosa di umano e al tempo stesso straniero, come un rito proveniente da una terra lontanissima, non riesco dentro di me a rintracciare strumenti per tradurlo nella mia lingua. La mattina si esaurisce dietro questa ubriacatura sobria, ho provato ogni approccio possibile, ho tentato di liquidare quel che ho visto come il delirio di una vecchia vestita di grigio, poi come il fanatismo di una suora sorda e cieca al dolore che voleva in ogni modo attestare la supremazia del suo Dio, anche di fronte a quella deturpazione, poi come lo spettacolo di una bravissima attrice che un secondo dopo, magari, nel chiuso di un cesso si sarà lavata la bocca per il bacio dato su quel viso informe. Ma nessuna lettura riesce a colmare la distanza tra quel che ho visto e la mia logica».


Sono gli occhi e le carezze di una fragile suora di fronte a un perturbante volto sfigurato senza sorriso a salvarlo. È l’epifania di un amore inatteso e spropositato che è lo sguardo di un Gesù Dio incarnato, sofferente e risorto, che viene incontro a ciò che è stato rifiutato dal mondo. Un "amore credibile", direbbe Von Balthasar, il tratto distintivo del cristianesimo. Lo sguardo povero che vince il male radicale che annulla l’uomo, quello che sfigura il volto, cava gli occhi, rende impossibile il sorriso.


Il nome concreto della salvezza per Mencarelli è quel Gesù, «Dio in carne viva», crocifisso per una totale ingiustizia davanti a un Padre che lascia fare agli esecutori liberi, risorge e raggiunge i discepoli scoraggiati lungo una strada, quella di Emmaus, li accompagna e gli racconta la sua storia. Il loro cuore si accende, capiscono quello che le Scritture dicevano del Messia. E, una volta che Gesù li ha lasciati, tornano subito nella casa della Madonna e degli apostoli, per riferire che tutto era vero.

Gesù salva accompagnando il dolore e la disperazione lungo una strada e riempiendo il cuore (6). Regalando uno sguardo nuovo sul presente e sul passato. Una speranza al futuro. Così il mondo di prima si vede con occhi nuovi.


«Ho l’ospedale, il mio lavoro. In fondo lì dentro sono ritornato a saper vivere senza alcol. Rido e faccio ridere. Parlo e ascolto. In realtà ho tutto. Tutto quello che ha preso la mia vita e l’ha rivoltata è dentro l’ospedale. Un grammo alla volta, arto dopo arto, fino al cuore, il cervello. Quando penso a tutti gli incontri, le esperienze, l’aberrazione e l’incanto dentro ogni singolo istante. E la moltitudine di parole che mi viaggia nella mente. Io sono già rinato. Il primo giorno che ho messo piede al Bambino Gesù».


Questo amore spropositato ha saturato quel vuoto e ha riempito l'assenza di presenza.

Proprio quegli scarti umani inassimilabili nel suo viaggio sono la pietra di paragone per incontrare nel silenzio la salvezza di Dio, la salvezza carnale di Cristo. La vocazione del cristiano non sarà mai piena se non affronta questa prova di amore dell’altro, del “nemico”, se non va incontro o incontra chi è abbandonato. Solo qui si mostra la sua forza debole e salvifica. Solo qui si sale ad un livello superiore, che supera la morte. Viceversa si ripiomba nella noia di chi «parla di Dio [e della salvezza n.d.r.] come se stesse leggendo le istruzioni per montare una tenda da campeggio».


Mencarelli non offre una ricetta definitiva o un manuale d'istruzioni. Indica una strada, quella che lui ha percorso. Una strada umana, senza oleografie agiografiche o gerghi per iniziati (qui un po' li ho usati io) che alla fine lo ha messo davanti a un Amore che si palesa nella debolezza della vita.


«Non serve capire, comprendere. Serve accogliere l’umano con tutta la forza che ci è concessa. Arrivare alla bellezza che non conosce disfacimento, nucleo primo e inviolabile. Fronteggiare l’orrore per sfondarlo. Ecco il primato d’amore che ho visto negli occhi di quella suora. Una vetta, un’altezza destinata a pochi. Solo a chi non arretra mai di fronte alla realtà, senza mai chiudere gli occhi, con un coraggio sterminato nel sangue, più forte di qualsiasi paura, egoismo. Non ci si arriva senza coraggio. Improvvisamente, mi fioccano davanti agli occhi gli ultimi anni della mia vita. Quante parole, nomi di droghe e malattie, soltanto per dire che mi manca il coraggio per vivere e veder vivere le persone che amo, accettando la scure del destino, perché solo così può essere, consumandomi nella vicinanza, nell’accettazione di ogni orrore possibile vivendolo per quel che è veramente: un diaframma. Un velo nero da strappare. Dietro quel velo restiamo bambini, tutti. Sempre. Perderò la luce di questo momento, non so se un poco alla volta o tutta in un solo istante. Ma ne porterò per sempre testimonianza, perché uno solo di questi momenti basta a illuminare una vita intera».



Conservare e trasmettere la salvezza

Da quel momento ricomincerà il suo percorso di liberazione, la risalita faticosa dalle dipendenze. Percorso non definitivo o scontato, non semplice conseguenza, un programma che deve essere solo applicato. «È un fuoco lento, cova in silenzio da quando è entrato nei miei occhi». Tutto continuerà a chiedere salvezza e a sollecitare la libertà. La salvezza anche quando si capisce che è vera e che coinvolge tutta la vita e la sana al presente, al passato e per il futuro, il più delle volte è un’esperienza di pienezza che ha bisogno di rinnovarsi in incontri salvifici ulteriori, necessari perché l’identità si definisca e la libertà e i legami si dilatino. La salvezza in questa vita è sempre un tesoro delicato che bisogna conservare in memorie indelebili maturate negli sguardi. È certo fondamentale conservare se stessi, preservare e curare quello che contiene lo sguardo che ci accompagna nel viaggio. Ma, ancora una volta, non è un percorso egoistico. Qui non c'è un aut-aut, Conserviamo noi stessi nello sguardo e allo stesso tempo diventiamo “casa degli sguardi” nella quale si custodiscono gli sguardi e la salvezza degli altri. Diventiamo casa dove chi viaggia può fermarsi a riposare per riprendere, grembo materno di cui rimane sempre ricordo in chi è generato, che ritornerà a quella bellezza, a quella salvezza, sperimentata in un rapporto di amore e di amicizia. Grembo che ricorda che in questa vita siamo sempre generati e chiamati a generare.


La salvezza vera non la si cerca come bene personale esclusivo, come semplice obiettivo di egoismo e autorealizzazione, anche se chiaramente spesso cerchiamo di essere salvati perché siamo noi che stiamo affogando in mare, proprio noi, proprio io. Ma quella salvezza da altri, a volte inattesa e non dovuta, nel momento in cui ci restituisce gratuitamente alla vita, contiene in sé la forma del dono. La salvezza riscatta e genera, fa fiorire i propri talenti ma (e Mencarelli lo ripete spesso nei suoi incontri) fa fiorire i talenti perché essi sono e debbono diventare sempre più un dono per altri. Perché il bene è sempre inscindibilmente attivo e diffusivo, mentre il male paralizza e fa ripiegare su di se, isola dagli altri. Per questo la scrittura è per lui dovere di testimonianza, servizio ai compagni di viaggio. Per questo, l'amore verticale che lo ha generato come figlio (e rigenerato liberamente come figlio di Dio) lo porterà alla generazione di un figlio (tema di un'omonima raccolta di poesie) consegnato all'avventura della sua libertà.


Nemmeno è contraddittorio con il dono scrivere di sé. La poesia che purifica ha l’animo di portare alla luce aspetti universali delle storie di tutti gli uomini, con cui il lettore possa identificarsi. La scrittura stessa si compie quando necessariamente e consapevolmente attraversando l’esperienza personale, mostra in quella vicenda particolare il concreto universale umano.


La salvezza rivela ultimamente nel cuore della lacerazione esistenziale la casa di un Padre alla quale sempre tornare. Da essa il suo viaggio era inconsapevolmente partito; la casa delle radici, della madre che lo ha messo al mondo, che lo guarda con amore e lo risolleva. È la casa degli sguardi dove sostare e rintemprarsi per rimettersi poi, in cammino nella vita, perché il viaggio continua non finisce per lui e non finisce con lui, continua per se e quanti potrà ancora incontrare perché tutto chiede salvezza.




(1) In queste note, non ho fatto nessuna anticipazione del contenuto dei libri, mi limito a quanto viene svelato nei risvolti di copertina. Unica eccezione, il riferimento all'episodio della suora, dal momento che lo stesso Mencarelli parte spesso dal racconto di quel momento per parlare dei suoi libri e di sé a gente che i libri non li ha letti.


(2) Questo limite è stato evidenziato dallo psichiatra viennese Viktor Frankl, teorico dell'analisi esistenziale. Per Frankl la motivazione ultima dell'uomo è la ricerca del senso della propria vita e questo deve essere l'orizzonte ultimo dell'analisi, entro la quale vanno compresi e adeguatamente curati i sintomi.


(3) Nel 1969 il poeta e compositore brasiliano Vinicius de Moraes trascorse alcuni mesi a Roma. In quel breve periodo realizzò un album scritto, cantato e recitato assieme a Giuseppe Ungaretti, Sergio Endrigo e Toquinho. Ungaretti aveva conosciuto de Moraes in Brasile nel 1937 e aveva tradotto in italiano alcune sue poesie. In questo album, Ungaretti recita alcune delle poesie di de Moraes da lui tradotte. Il titolo del disco riprende un verso del recitativo della prima traccia, la Samba delle benedizioni.


(4) È significativo come la pratica cattolica del sacramento della Confessione corrisponda in pieno a questa esperienza antropologica, sentire di esser perdonati da Dio ha bisogno di una prossimità di carne e di presenza fragile di un altro che confermi di essere perdonati dall’Altro.


(5) Già nel 1981, il filosofo scozzese Alasdair Macintyre, nella sua opera principale, Dopo la virtù, indicava tre tipi sociali fondamentali della cultura liberale, i punti di riferimento a cui si chiedono soluzioni: il terapeuta (oggi assistito specialmente della biochimica), il manager e l'esteta concettuale. Sono proprio le figure con cui fa i conti Mencarelli (a questi tipi anni dopo avrebbe aggiunto il conservatore moralista, inteso come colui che vincola alla stabilità in un mondo in continuo cambiamento, ma che lo fa mediante la coercizione).


(6) Colpisce la risposta dei due ultimi pontefici alla domanda sul dolore innocente, perché corrisponde in pieno all'ultimo tratto del percorso de La casa degli sguardi. Papa Benedetto XVI, rispondendo a una bambina giapponese che aveva perso i genitori in un terremoto: «anche a me vengono le stesse domande: perché è così? Perché voi dovete soffrire tanto, mentre altri vivono in comodità? E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte. Questo mi sembra molto importante, anche se non abbiamo risposte, se rimane la tristezza: Dio sta dalla vostra parte, e siate sicuri che questo vi aiuterà. E un giorno potremo anche capire perché era così. In questo momento mi sembra importante che sappiate: «Dio mi ama», anche se sembra che non mi conosca. No, mi ama, sta dalla mia parte, e dovete essere sicuri che nel mondo, nell’universo, tanti sono con voi, pensano a voi, fanno per quanto possono qualcosa per voi, per aiutarvi. Ed essere consapevoli che, un giorno, io capirò che questa sofferenza non era vuota, non era invano, ma che dietro di essa c’è un progetto buono, un progetto di amore. Non è un caso. Stai sicura, noi siamo con te, con tutti i bambini giapponesi che soffrono, vogliamo aiutarvi con la preghiera, con i nostri atti e siate sicuri che Dio vi aiuta. E in questo senso preghiamo insieme perché per voi venga luce quanto prima» (22 aprile 2011).

Papa Francesco: «come sappiamo, questo testo di Geremia è poi ripreso dall’evangelista Matteo e applicato alla strage degli innocenti (cfr 2,16-18). Un testo che ci mette di fronte alla tragedia dell’uccisione di esseri umani indifesi, all’orrore del potere che disprezza e sopprime la vita. I bambini di Betlemme morirono a causa di Gesù. E Lui, Agnello innocente, sarebbe poi morto, a sua volta, per tutti noi. Il Figlio di Dio è entrato nel dolore degli uomini. Non bisogna dimenticare questo. Quando qualcuno si rivolge a me e mi fa domande difficili, per esempio: “Mi dica, Padre: perché soffrono i bambini?”, davvero, io non so cosa rispondere. Soltanto dico: “Guarda il Crocifisso: Dio ci ha dato il suo Figlio, Lui ha sofferto, e forse lì troverai una risposta”. Ma risposte di qua [indica la testa] non ci sono. Soltanto guardando l’amore di Dio che dà suo Figlio che offre la sua vita per noi, può indicare qualche strada di consolazione. E per questo diciamo che il Figlio di Dio è entrato nel dolore degli uomini; ha condiviso ed ha accolto la morte; la sua Parola è definitivamente parola di consolazione, perché nasce dal pianto». (4 gennaio 2017)




La trilogia di Mencarelli comincia dagli ultimi anni del liceo. I suoi libri possono essere letti da tutti, direi proprio a partire dalla fine delle superiori e può essere adatta proprio per quella fascia di età, anche se la lettura può veramente risuonare in tutte le età della vita. Le descrizioni realistiche del Bambino Gesù possono risultare troppo crude e pesanti per qualche lettore. Non si può certo dire che Mencarelli sia uno scrittore “leggero”. Oggi si preferisce la “leggerezza” di cui parla Italo Calvino, il «planare sulle cose dall'alto, non (avendo) macigni sul cuore». Ci sta. Si può andare al cuore della vita per molte vie, leggere o pesanti, dolorose o divertenti. La via di Mencarelli sicuramente è essenziale, pesa e scarnifica come può farlo un Dostoevskij. Eppure i suoi libri non sono cupi, lui non indulge mai in una pesantezza fine a se stessa. Anzi, lo accompagna sempre una fine ironia, quella che in Socrate e Kierkegaard aveva il compito di mettere a nudo l’umano. Più precisamente, Mencarelli pratica l’autoironia. Lui ha scritto e ripetuto spesso che «l’umorismo è la sua arma segreta». E con questo, ha detto tutto quel che c'era da dire al proposito.



La trilogia di Daniele Mencarelli comprende i romanzi: La casa degli sguardi, Mondadori, Milano 2018, pp. 227; Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano 2020, pp. 170; Sempre tornare, Mondadori, Milano 2021, pp. 336.

Il suo ultimo romanzo (non autobiografico) è Fame d'aria, Mondadori, Milano 2023, pp. 160.

Tutti i romanzi sono disponibili anche in ebook (Kindle) e in audiolibro (Audible).


Le poesie illuminano la narrazione dei romanzi, nascono assieme a quelli, a volte li anticipano o gettano luce su qualche punto specifico. Le raccolte pubblicate delle poesie di Mencarelli sono: I giorni condivisi, La Nuova Agape, 2001; Guardia alta, La vita felice, 2005; Bambino Gesù. Ospedale pediatrico, TEV, Roma 2001, ripubblicato da Nottetempo, Roma 2010; Il figlio, Nottetempo, Roma 2013; Storia d’amore, LietoColle 2015; buona parte di queste poesie, assieme ad alcune nuove, sono raccolte in Tempo circolare (poesie 2019-1997) Pequod, Ancona 2019.


Nel 2021 ha pubblicato con le Edizioni San Paolo la meditazione sulla Via Crucis La croce e la via.


In rete si trovano molti video di incontri assai coinvolgenti con Mencarelli, in genere nel contesto della presentazione di un suo libro. In genere sono conversazioni con ragazzi delle scuole, con alcuni dei quali mantiene spesso impegnative e fedeli corrispondenze.


Tra tutti questi ritengo molto utile la conversazione con la bravissima Monica Mondo per il programma Soul di TV2000 dopo la pubblicazione de La casa degli sguardi



la presentazione di Tutto chiede salvezza del 21 agosto 2020 all’Arena Vitali di Fermo nell’ambito del Meeting di Rimini 2020: "La salvezza oltre l’orrore, la meraviglia del sublime"



e soprattutto l’intervento al XXIII convegno dei ragazzi di USC presso la Fraterna Domus di Sacrofano nel dicembre 2019, perché tocca l’anima dell’opera di Mencarelli






Netflix ha prodotto una serie televisiva ispirata al libro Tutto chiede salvezza, con lo stesso titolo. Ha avuto grande successo, seguirà una seconda stagione. A mio parere la trasposizione televisiva perde qualcosa della tensione sottostante alla narrazione. Non è solo una questione di adattamento della narrazione, personaggi e vicende quelle sono (ci sono piccole correzioni e un personaggio nuovo che condiziona abbastanza la vicenda), ma proprio del punto di equilibrio del racconto. Alcuni elementi del libro vengono inseriti in una narrazione nuova nella quale (quasi) tutto per (quasi) tutti (pazienti, infermieri, medici, famiglie) si risolve miracolosamente nel corso di una settimana. A un certo punto verrebbe quasi voglia di fare un TSO, che sembra a tratti una gita di liceali in Grecia, con tanto di intreccio romantico e sessuale. Dante ci ha fatto capire che in un orizzonte cristiano la vita non è mai definitivamente tragedia come per i Greci, ma è Commedia in un orizzonte di salvezza e resurrezione. Qui a volte sembra si tratti di una commedia minima e leggera nella quale un episodio che diventa anche più drammatico rispetto al libro, consente però di chiudere tutto il resto in una serie di magici happy ending, che potrebbero risultare fastidiosi a chi queste situazioni le ha vissute e le vive in prima persona. Le malattie mentali quasi per definizione richiedono tempi lunghi per essere guarite semmai guariranno, lo stesso vale per i drammi relazionali delle persone coinvolte, dei loro familiari.

Non è di certo quello che si sperimenta leggendo il libro. Forse c’è un vincolo di esigenze televisive, che riguardano il modo di raccontare, che è assai diverso dall'esperienza, diversa e forse ineguagliabile, della scrittura. Ci sono esigenze anche di produzione, di audience. Non saprei. Sinceramente, la presenza dello stesso Mencarelli come co-sceneggiatore, vista la sua non indulgenza per gli sconti, mi disorienta un poco. In ogni caso, il mio suggerimento è quello di leggere prima i libri, ai quali la fiction nulla aggiunge, anzi.


 
 
 

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