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Paolo Conte: il tempo, la passione e il mistero

  • Immagine del redattore: Marco D'Avenia
    Marco D'Avenia
  • 28 set 2023
  • Tempo di lettura: 28 min



Un racconto di sessantacinque anni di musica, pittura, poesia, enigmistica, e altro

a partire da Razmataz

“La vera musica, che sa far ridere

e all'improvviso ti aiuta a piangere...

la grande musica frequenta l'anima

col buio inutile,

e non si sa perché, e non si sa perché....”

(Paolo Conte, La vera musica)





Mi scriveva di recente un amico egiziano, matematico, che vive e insegna in Australia: “La scorsa estate avevo comprato il cd “The Best of Paolo Conte”; mio figlio, che ha dodici anni e non sa una parola d’italiano, ne è rimasto affascinato e mi ha detto: “Dad, this is deep music!”. Lo aveva colpito in particolare Sparring Partner: ci siamo messi subito a suonarla al piano, e abbiamo continuato per settimane intere”.


“This is deep music”: è forse la definizione più pregnante della musica di Paolo Conte: ne mette in luce tutta la forza d’attrazione e allo stesso tempo il limite intrinseco. Perché, l’altra faccia della medaglia è che io, personalmente, non sono mai riuscito a “fare pubblicità” a Paolo Conte: la sua musica ti aggancia alle prime note, ti cerca e ti sceglie tra tanti, ma se vuoi spiegarne la ragione, non fai che confondere gli altri e soprattutto te stesso. Ancor peggio, quando vuoi spiegare al suo autore quello che ne pensi (ragione in più per prendere con le dovute pinze quanto segue).

Qualcosa però mi fa sospettare che proprio in questa duplicità stia forse il motivo nascosto per cui, dovunque si è esibito, prima in Italia, poi a Parigi, nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, Conte ha riempito teatri dai nomi altisonanti, pagando un pedaggio minimo alla pubblicità, grazie a un arcaico tam-tam di appassionati, giovani e anziani, che "si riconoscono" in uno stile, come se avessero un segreto preziosamente custodito in comune. Non che alla sua agenzia, la Concerto Music (fondata negli anni settanta da Renzo Fantini, prematuramente scomparso nel 2010) non siano bravi, per carità, ma per esaurire tutti i posti di un teatro, stabilito un numero di serate a piacere, basta “che si sappia” che ci sarà Paolo Conte (e spesso lo si sa molto prima per vie ufficiose, quasi indispensabili per ottenere un posto: la sua agenzia, oltre a confermare chi già in fondo sa, gestisce un’informazione sobria e di elevata qualità, con interviste e articoli ben calibrati, rilasciati ai nomi giusti della critica musicale, e con iniziative originali e di alto livello).


Eppure non sto parlando di un “fenomeno paranormale”, tutt’altro.

Da più di trent'anni anni seguo con fedele assiduità questo peculiarissimo, artista (jazzman nero, chansonnier francese, ma pur sempre appassionato avvocato astigiano, classe 1933, esperto in casi di fallimento e di enigmistica), che ha lasciato la sua firma nell’immaginario collettivo perché nell’azzurro inseguiva un treno di desideri che marciava all’incontrario rispetto ai suoi pensieri; man mano si accumulavano gli album, le registrazioni video, e, negli ultimi anni, maturava una frequentazione diretta, dietro le quinte o per via epistolare; in tutto questo tempo mi sono sempre chiesto se non ci fosse un fil rouge a legare una messe enorme di note e parole, immagini storie e metafore d’intere vite che fluivano con spontaneità sempre nuova, lungo tanti decenni di carriera, dopo aver attraversato oceani e tradizioni musicali diverse, pur amando rimanere seduto comodamente nella poltrona di casa, come sanno fare i piemontesi, almeno dopo aver accolto Salgari.


Chi è dunque Paolo Conte? Innanzitutto, un pittore-musicista (i suoi “due vizi capitali”), curioso del prima, ansioso di quello che sarà dopo, e appassionato nel suggere quanto l’istante gli regala, come ogni esperto conoscitore del tempo; che può permettersi il lusso di rallentare il ritmo di una milonga, di ripetere all’infinito gli stessi “cinque accordi che sotto le dita si muovono bene” o di scappare via all’improvviso, a ritmi sempre più accelerati, perché “la fuga, nella vita, chi lo sa, che non sia proprio lei la quinta essenza”. È, al di là di un pudore piemontese che in lui diventa occasione di inediti svelamenti, “il maestro” di qualcosa che non cambia, e che proprio per questo “è nell’anima, e nell’anima per sempre resterà”, mentre incrocia le dimensioni ritmiche più diverse e contrastanti, sapendo distinguere bene l’attimo dell’esitazione dall’istante della felicità. Ma allo stesso tempo, è un uomo del suo secolo, che ha tratteggiato sensuali ritratti femminili e immagini veloci d’automobili sotto cieli di smalto e di aerei che scovano malìe di pianoforti tra le pieghe delle distese atlantiche. Ecco, forse proprio qui è il suo punto d’attrazione e di affabulazione. Paolo Conte è l’artista che, proponendoci in un semplice e distratto circolo, apparentemente vizioso, i temi pervasivi del nostro tempo post-modernistico – il finito e l’infinito, il tempo effimero e contingente e l’eterno, l’interminabile parlare e il non riuscire a capirsi, la ricerca perpetua e continuamente insoddisfatta – ha elevato l’enigmistica a sistema di pensiero, mutando il gioco di parole in paradosso dell’esistenza: “Cercando di te in un vecchio caffè/ho visto uno specchio e dentro/ho visto il mare e dentro al mare/una piccola barca per me/per farmi arrivare a un altro caffè/con dentro uno specchio che dentro/si vede il mare e dentro al mare/una piccola barca pronta per me/ah che rebus…”. C’è una circolarità ricorrente, nelle parole, nella musica, nella stessa gestualità dei concerti, che meriterebbe forse maggiore attenzione. Da questo luogo paradossale, Conte ha inquadrato un Novecento immemore di grandi racconti, ma pieno di domande, contraddizioni e immagini cinematografiche. Le canzoni del maestro sono piccoli film, con una trama poeticamente essenzializzata dalle esigenze della musica. perché nella vita “è tutto cinema, cinema, cinema”, dove ognuno di noi attende uno zio, autorevole e vicino complice-amico, che gliene sveli l’intimo segreto. “E piano piano si srotola di questo film la pellicola…”.

Il Novecento è la malinconica e nebbiosa provincia del dopoguerra, da cui improvvisi escono fuori miti di tenaci scalatori in bicicletta, “col naso triste come una salita”, ma “gli occhi allegri da italiano in gita”; il mondo dei malinconici, megalomani sognatori degli infiniti bar Mocambo che hanno punteggiato delle loro effimere insegne l’Italia del boom economico, per poi annegare, in modo sempre più stilizzato, nella tristezza di un caffè offerto da un curatore fallimentare, realizzando amaramente che “piove bene sugl’impermeabili, ma non sull’anima”; sempre pioggia, quella che Parigi regala ai frequentatori abituali della Rive Gauche, “ai suoi artisti, pittori, mimi e musicisti”; il secolo che sente il richiamo lontano d’immense foreste sudamericane, popolate da selvagge divinità e scoppia nel traffico di metropoli stipate di emigranti che le stesse foreste magari hanno abbandonato; l’epoca che si scatena liberando energie di conquista, annullando i confini, violando i cieli, sciogliendo dai "garages" “grossi motori entusiasmati”; eppure allo stesso tempo, è anche un Novecento nascosto di porcellane di casa un po’ kitsch e “tinelli marron” da cui le splendide avventure si sognano e dove le ferite della vita vengono, se possibile, medicate; di spolverini di percalle, ratafià e macchine da cucire Singer, conservati per pudore in un angolo: forse “buone cose di pessimo gusto”, come diceva un suo conterraneo, che un giorno con il suo camion giallo Gondrand porterà via da stanze piene di polvere, “tanto il tempo passa anche sotto ai sofà”. Eppure questo tempo, ambiguo nel suo restare nella memoria e sugli scaffali e così rapido nel dileguarsi se cambi la prospettiva (“controluce, tutto il tempo se ne va”), l’Avvocato lo amministra nelle sue canzoni con giustizia e sapienza, 25 secondi se sufficiente, ma anche un bel quarto d’ora, quando è necessario, come nella ormai celeberrima Diavolo rosso. Segno di una misura che aspira a governare il paradosso.

Un paradosso che si ripete in frammenti di racconti, contingenti sfaccettature di una medesima, fervida ispirazione. Per ogni parola, un’immagine, un film, un pezzo di storia, un amore piccolo o grande, vero o immaginato, e una frase musicale, che tante volte parla senza parole. E viene udita e compresa senza essere neanche capita, perché nel mondo di Conte si parla disinvoltamente ogni lingua o dialetto e si celebra al tempo stesso l’incomunicabilità tra gli uomini. Eppure, dopo tanta fatica e tentativi, dopo tante donne, alberghi, e personaggi, e lune, e palcoscenici, e canzoni, sembrava che “sotto le stelle del jazz”, ancora “non si capisse il motivo” e tanto valeva fermarsi all’inizio: “ma poi questo giro in cerca di te/è turistico ahimè e mi accorgo che/chi affitta le barche è anche/il padrone di tutti i caffè/e paga di qua e paga di là/noleggia una barca e prendi un caffè/ah, è meglio star qui a guardare/i pianeti nuotare davanti a me/... nell’oscurità del rebus/ah che rebus”; quasi che tutto in fondo rimanesse, eterno enigma del teatro, soltanto “una faccia in prestito”, da offrire malinconicamente a un rispettabilissimo pubblico, prima di dileguarsi nell’ombra. Il rebus insoluto, le parole ambigue, il tempo senza senso, il desiderio inutile.


E invece no. Paolo, che si trova bene in compagnia di sé stesso, e dice di comporre soltanto davanti alla moglie Egle – la discreta Egle Lazzarin, sposata nel 1975, a cui Roberto Benigni dedicò alla Contiana del club Tenco, nel 1981, la canzone Mi piace la moglie di Paolo Conte – , dall’interno del suo cantuccio allora trentennale ha creato una “strombazzata” americana pronunciata alla francese: Razmataz. Razmataz, "confusione", "baldoria", parola che segna l'origine del jazz, antico grido intercalare che si lanciavano le ballerine di Charleston durante le loro esibizioni negli anni Venti. Razmataz, il fil rouge, lo sguardo retrospettivo e critico sulla propria produzione artistica e sul senso della propria vita, dove riappaiono tante frasi musicali già sentite, ma che dopo esser state lasciate a decantare nel tempo, ritornano ammaestrate, purificate, sublimate. Razmataz, pianoforte, pennello e genio: Gershwin e Boccioni, ma anche Puccini e Jelly Roll Morton, l’Africa e l’immancabile fisarmonica, senz’ombra alcuna d’eclettismo; Razmataz, una voce narrante con accento transalpino, musiche, dialoghi, i quadri di un musical inventato prima che arrivasse il movimento della macchina da presa, rumori e personaggi caratteristici e variopinti, lingue, dialetti, cadenze diversissimi, il tutto gestito con abilità sinestetica e cinematica, con le più avanzate risorse multimediali, “opera aperta”, per l’immaginazione propria e altrui; Razmataz, un sogno forse, the Green Dream, che riporta l’uomo che corre dietro agli aerei e alle macchine alla primitività del desiderio e della passione, alla “negritudine”, nome che consacra lo sposalizio di una cultura europea ricca di tradizione e un po’ decadente e di un’iniezione di naturalità afro-americana, offerta nel ritmo del jazz e dello swing e nelle sudate movenze della boxe: Duke Ellington, "grande boxeur", e Sugar Ray Robinson, che del pugilato fu eroe.

Razmataz, una ballerina americana nera, che europei raffinati e appassionati di ogni luogo inseguono, incontrandosi in un inevitabile appuntamento col tempo e nello spazio, a Parigi, metà degli Anni Venti; uno strano poliziotto indaga sulla sua scomparsa, avvenuta un lunedì su un treno a pochi chilometri dalla capitale francese, dove avrebbe dovuto prodursi la domenica seguente in uno show di successo assieme alla sua compagnia di jazzisti americani, proprio come un giorno del 1926 fece una certa Josephine Baker, affiancando l’amore della natìa St. Louis a quello della Ville Lumière: “J’ai deux amours, mon pays and Paris”. E la passione degli europei, di cui i neri neanche si rendono conto, tanto per essi è naturale il ritmo scandito dai loro piedi felici che solo da poco hanno conosciuto le scarpe, è disposta a tutto, persino a mutar pelle in un mondo di bianchi “adoratori dell’idolo” per cercare, ognuno a modo proprio, il mistero sfuggente della Reine Noire, della Black Queen. L’attrice espressionista tedesca, il latin-lover italiano, la scrittrice di racconti del mistero con il suo accompagnatore cinese, la moglie di un ricco imprenditore, lo sportivo britannico e l’affermato stilista di moda che cerca l’“essenza” dei suoi vestiti su un corpo che d’indumenti non ne ha mai indossati; chi in un modo, chi in un altro, sapendolo o non sapendolo, inseguono questo desiderio originario, in una città dove “qualcuno cammina”, camion si inseguono, le case sono “modernistiche”, gli aerei sorvolano le ferrovie, gli zingari impegnano giave forsennate, mentre giardini e bistrot risuonano rispettivamente di contrabbassi o di violini e fisarmoniche. Lei a Parigi non è mai arrivata, eppure la conosce a menadito, come conosce perfettamente anche tutti coloro con i quali ha fissato da tempo immemorabile un appuntamento. Ma è «una bestia da palcoscenico, che se ne sta rintanata nell’ombra aspettando il momento propizio per farsi finalmente vedere, ammirare e farci sentire il suono della sua voce» «sotto la luna elettrica di un teatro». Tuttavia il caso Razmataz, affidato all’infallibile detective delle passioni umane Aigrette, rimane formalmente insoluto: Razmataz è scomparsa, e con lei quell’Europa che per un attimo si era vista rinascere, nell’arte, nel romanzo, nella pittura: futuristica, dadaista, cubista, atonale, cinematografica, al ritmo dell’alba del jazz. Rimane tuttavia l’eco della "negritudine", della "bellezza nera", che qualcuno quella domenica sera ha pure udito e che rimane, partita la compagnia di teatranti, impresso per sempre nella memoria: “se la frase arriverà/e il tuo nome sfiorerà/il segreto scenderà/dove non era sceso mai…e il solletico farà/dove non era sceso mai/…se la frase arriverà”; rimane allora un suggerimento, apparentemente solo commerciale: “Nous, on y va… mais, vous, achetez nos disques, la voix phonographique qui vient de l’Amerique”.

Quanto è avvenuto dopo “la partenza di Razmataz”, nell’arte del Novecento, pare in fondo solo una ripetizione di quell’istante di ventennale magia, a cui bisogna aver il coraggio di tornare a guardare. A sentir Conte, ci sarebbe bisogno qui di un po’ di sano anti-storicismo: «non è giusto ritenere che l’avanzare del tempo (la storia) significhi senz’altro miglioramento dei valori estetici». Questa prospettiva di permanenza, resa sempre più esplicita da un’interiorità piena di poesia, consente all’artista di muoversi rispetto al tempo, di rallentarlo o di accelerarlo, di uscirne fuori e di rientrarvi, restando fermo in un punto stabile. Qui forse, non sempre e non da sempre esplicito, è il luogo d’equilibrio del Maestro, che si orienta con una voce udita dall’esterno, con l’annusare la presenza di una regina nera, con la fuga di due gambe, con una canzone che echeggia nell’aria parigina. Qui è l’unica misura. La sua ispirazione invece nasce dal “battere felice” dei suoi piedi, che quasi scappano selvaggi da sotto al pianoforte. «Impara dai miei piedi», mi disse una sera. Niente di più fisico. «Persino l’ispirazione più dolce, in musica o parole, viene sempre da una parte selvaggia, irrazionale di te. Può essere molto antica o assai infantile» È sempre qualcosa che scatena un’energia potente, Il desiderio, “ça donne de l’énergie”. “Primitivo”, “ancestrale”, “africano”, il desiderio è il vero protagonista di Razmataz. Nell’universo contiano il desiderio trascina ogni persona, trasformandolo da “gorilla”, “scimpanzé”, “orango”, “macaco”, “uomo-scimmia” (una vera catalogazione di primati), verso un’esistenza nella quale con passione a ciascuno è concesso di “trovare una via”, pur tra difficoltà e contingenze avverse. Un desiderio multiforme, il quale, bisogna dirlo, certe volte diventa eccessivamente sensuale, quasi dionisiaco, quando non cinico o decadente; o, più semplicemente, resta volutamente al livello puramente animale; eppure, lo stesso desiderio, nelle canzoni migliori, viene imbrigliato, da quella “vera musica” che “col buio inutile” “frequenta l’anima”, “che sa far ridere e all’improvviso ti aiuta a piangere”. L’equilibrio, nel caso di quest’album, pare riuscito. Il desiderio, che dal piede, felice sorgente di ritmo, si trasmette alle gambe, giunge al cuore e, in una fisiologia creativa quasi-omerica, forma nell’immaginazione nuove storie, che riaprono altre, possibili avventure, spesso d’amore, perché nella donna per l’uomo si svela sempre «una distanza piena di mistero»; il desiderio accomuna ogni uomo, è la merce di scambio nella comunicazione, ciò che distingue un uomo dall’altro e ciò che all’altro l’accomuna, la materia prima della felicità e la via inevitabile da percorrere per ottenerla; dal desiderio dipende l’indagine: “si rivolga a chi desidera”, consiglia al commissario Aigrette il misterioso mediatore Vive la nuit, distributore d’indizi che conducono ogni personaggio all’appuntamento domenicale, al teatro di Rue de la Revue Noire; il desiderio non è comunque mai pieno in questa vita e la felicità resta in ogni caso sempre segreta e contingente: “da dove arriva? Quanto rimane? Così va il mondo, mai si saprà…”. È buio, amore buio, che all’improvviso può illuminarsi di luce (“The enigma in this light, change all”), buio inutile nel senso più nobile del termine. E tutto questo è fonte di meraviglia, it’s wonderful, good luck, my babe! Meraviglia, inutilità, mistero, passione: il lessico fondamentale di una vichiana e barbarica “metafisica fantasticata”, dove quello che «ciascuno sa si mescola a quello che non sa, e quello che non avrebbe mai saputo a quello che ha sempre saputo”», tutta roba “da scimpanzé”, o forse meglio, per tornare alla napoletana sapienza dei corsi e ricorsi della storia, gioco (non scherzo) proprio di “fanciulli del genere umano”, che trova nel mondo delineato dall’arte il suo compimento e la sua regola.

Siamo autorizzati ad andare oltre? Questo in tutta onestà ancora non lo so. Certo è che in Razmataz, quasi nessuna canzone è priva di un esplicito o implicito riferimento a un mistero. E qual è una soluzione e un contenuto possibile di questo mistero? Che cosa di fatto arricchisce (è sentenza unanime) chi esce da un concerto di Conte, chi lo ascolta abitualmente, chi lavora con lui? Ovviamente, c’è un’innegabile attrattiva nelle sue finissime analisi psicologiche, affidate spesso al gioco di parole e nella complessa architettura di una musicalità che, pur nella sua varietà, risulta ovunque nel mondo familiare per chi l’ascolta. Ma forse c’è qualcosa che va oltre la semplice (e pur validissima) riverenza per il bello, confinata entro le mura di un teatro, e che pur aspira a travalicare questo luogo d’élite, per farsi linguaggio comune (quella per la ricostruzione di un teatro “al centro d’una agricola contrada” è stata forse l’unica volta che l’Avvocato è, almeno metaforicamente, “sceso in politica”). Paolo Conte, che «non ha mai amato definirsi, né raccontarsi o addirittura capirsi» (Massimo Cotto), un giorno si è sorprendentemente auto-definito “metafisico”: «Trovo che si sia abbandonata completamente l’attenzione alla metafisica. Non si cerca più di rispondere a interrogativi abissali tipo: ‘chi siamo? Da dove veniamo? Siamo immortali?’». Un metafisico per cui la passione conveniente non è mai quella attratta dal gorgo mistico del nulla, bensì quella evocata dalla “vera musica”: essa vale “se aiuta a far emergere la propria natura”. Una natura che Conte rifiuta di consegnare alla “scienza”, all’ésprit de géométrie. Parole quindi ancor più impegnative, sulle quali non mi pare corretto personalmente impegnarmi più che in forma d’accenno.

Partiamo da qui. Penso si possa dire che lo stile delle liriche contiane e delle atmosfere evocate dalle sue musiche sia quello classico di una confessione piena di pudore, della lettura solitaria della propria anima, e attraverso di essa, delle proprie relazioni con gli altri e con le cose del mondo. Le sue analisi, pur personalissime e contingenti, toccano corde care a tutti, perché «non è cambiato niente di fondo, né credo cambierà. I rapporti tra gli uomini rimangono gli stessi». Per questa via, la visione della negritudine, nelle migliori composizioni, potrebbe anche varcare le soglie del Novecento, in direzione sia del passato, sia del futuro. Il suo contenuto è la persona, la libertà dell’uomo singolo e concreto, corpo e anima, immaginazione memoria sguardo e sensibilità, la sua capacità di progettarsi, e di accettarsi tra limiti e delusioni, di rapportarsi agli altri nella compassione o nella simpatia (nel nobile senso greco di sympathéia), e, come contraltàre, la possibilità della delusione, dello scacco, dell’essere riassorbiti nell’anonimato. Un desiderio libero che rimane sempre incompiuto, da rincorrere, ma che allo stesso tempo, evoca una matrice a cui sempre ritornare; la sua musica vuole esplicitamente conservare quell'angolo visuale in cui il desiderio non si appiattisce sulle soddisfazioni parziali e nella routine ma continua ad andare oltre, con passione e vibrante tensione. Conte è in definitiva poeta della soggettività esistenziale autentica, centro vitale e riempimento del desiderio della negritudine: “You’re so true when you are free… dear”. E infine, lascia molto pensare l’ambientazione del desiderio in una città - Paris - che nasconde nel suo nome l’omonimia con le scommesse - paris - del desiderio, che Pascal, il filosofo delle raisons du cœur (parigino d’adozione) riteneva addirittura conducessero a Dio. Scommesse sulle quali un personaggio medita tra sé e sé, nella solitudine della sua casa, mentre ascolta la voce suadente di una canzone trasmessa da una radio: Oui, beaucoup d’paris/oui, tant de paris/tant de paris dans la tête d’quelqu’un/tant de paris dans la main d’quelqu’un/tant de paris dans le charme d’quelqu’un/oui, beaucoup de paris/Paris, plein d’avantages/Paris, c’est toute une blague/pleine de paris…”. Certo, “that’s my opinion”, però a ogni scommessa dell’uomo, il mistero di questa vita si svela come un evento, ma allo stesso tempo arretra nell’ombra, per sua stessa natura. È nella logica delle cose, è nella logica di Razmataz, in cui The Green Dream e Mozambique Fantasy, con la pacatezza delle note e dei colori, preannuncerebbero la quiete finale di un riposo piacevole e condiviso: “with pleasure I’ll see, I’ll see it with you… My Mozambique comes, my Mozambique dances and lives…”.

Moralina finale: forse nulla in questo Novecento, d’arte e d’orrori, ha strappato l’uomo a sé stesso come la passione del suo cuore; e forse mai prima, l’uomo smarrito nel tempo e nello spazio, ha intuito le profondità del mistero, presente appena dietro l’angolo, atteso come l’apparire di una ballerina nera. E lì che l’“oscurità del rebus” del tempo ambiguo può trovare la sua soluzione, la quadratura del cerchio, e ci offre in Razmataz, una possibile pascaliana soluzione enig-mistica del paradosso.


Non superflua, un’ultima parola: la passione personale per Conte, oltre al suo sguardo che ammicca in tralice tra una canzone e l’altra, deve non poco alla sua orchestra con cui allestisce i suoi "spettacoli d'arte varia": una via di mezzo tra un jazz ensemble e una big band americana, gente seria - quasi tutti polistrumentisti, «classici, ma non puristi», spesso anche docenti nei conservatori e nelle scuole di musica -, che, ognuno al suo posto, impasta musica con la pazienza e l’inventiva dell’artigiano: Lucio Caliendo, Daniele Dall’Omo, Daniele Di Gregorio, Massimo Pitzianti, Luca Velotti, Jino Touche, Piergiorgio Rosso, Francesca Gosio, Ginger Brew, Laura Conti, Cheryl Porter e tanti altri, quelli che ci sono passati e quelli che ci sono rimasti; ognuno di loro avrebbe anche una vita propria, una storia da raccontare, magari alla fine dello spettacolo, ma su questo palco si è soltanto, umilmente, la frase azzeccata del jazz di un avvocato astigiano col vezzo della poesia e dell’enigmistica. Razmataz, thank you!


Paolo Conte, Razmataz. Il cd (raccolta delle musiche che nell’opera completa esprimono l’azione o l’espressione visibile dei personaggi, esclusi quindi i semplici temi di accompagnamento), Platinum/Cgd East-West, ottobre 2000; Razmataz. Il catalogo (elegante antologia dei quadri più significativi dell’opera), con prefazione dell’autore, a cura di Format per Concerto, novembre 2000; Razmataz, Vaudeville. Il dvd: opera completa, che integra musiche live e di background, voci narranti in cinque lingue (in italiano e francese, quella dell’attrice Anne Girardot), che espongono la trama della vicenda per brevi passi, e ogni tanto commentano il sapore di certe scene, dialoghi e monologhi, rumoristica; illustrazioni – 1800 tavole eseguite con tecniche diverse (matita, gouache, pastelli a olio, inchiostri) e stili diversi, in omaggio alle diverse correnti artistiche d’inizio secolo, scannerizzate al computer e montate con sistema AVID –, raccontano la vicenda e fissano l’atmosfera. Quadri, musica e dialoghi di Paolo Conte; Platinum/Warner Music Vision: presentato a Cannes il 10 maggio 2001, in distribuzione dal 18 maggio 2001. Ripubblicato recentemente in versione arricchita: Razmataz, Commedia Musicale (con DVD), Feltrinelli, Milano 2019.




Riferimenti Contiani

(“offerti al lettore senz’alcuno scopo persuasivo”)



Discografia originale e completa


Si raccolgono qui tutte le composizioni di Conte, nelle versioni o in esecuzioni originali dal vivo, nella loro edizione italiana. Rimangono fuori le edizioni straniere, diverse soltanto nelle modalità di pubblicazione e nella veste grafica, ma non nel contenuto, e le numerose antologie, in quanto semplicemente riproducono le registrazioni originali. Non sono compresi gli ex 45 giri, EP e single (che si ritrovano comunque tutti nella discografia degli album). Non riporto neanche le numerose raccolte, italiane e straniere, che in genere selezionano brani tratti dagli album originali. In qualche caso sporadico, come in The best of Paolo Conte (1996) e Reveries (2003), alcune canzoni sono registrate in versioni nuove.



Album originali


Paolo Conte (Rca 1974)

Paolo Conte (Rca 1975)

Un gelato al limon (Rca 1979)


Paris Milonga (Rca 1981)

Appunti di viaggio (Rca 1982)

Paolo Conte (Cgd 1984)

Aguaplano (Cgd 1987)

Parole d’amore scritte a macchina (Cgd 1990)

Novecento (Cgd 1992)

Una faccia in prestito (Cgd 1995)

Razmataz (Warner Fonit 2000)


Elegia (Warner Music Italia 2004)

Psiche (Universal 2008)

Nelson (Platinum Universal 2010)

Snob (Platinum Universal 2014)


Amazing Game (Decca 2016)


Paolo Conte nasce ad Asti il 6 gennaio 1937, dal padre "notaio con la passione per la musica" eredita la passione per il diritto e quella per il jazz, che ascolta dai dischi paterni, clandestinamente importati in Italia durante il Ventennio. Matura una profonda cultura jazzistica e, ancora liceale, inizia a suonare musica jazz e swing negli anni 50, i suoi strumenti sono trombone, vibrafono e in seguito pianoforte. Collabora e dà vita ad alcune formazioni jazz, assieme anche al fratello Giorgio, anche lui divenuto poi stimato cantautore. Alcune sue esecuzioni, comprese tra il 1962 e il 1985, sono raccolte in Paolo Conte plays jazz (Sony BMG, 2008) e in Paolo Conte e amici [antologia della Dr. Dixie Jazz Band con 12 brani live dal 1983 al 1996; in quattro brani Conte è al piano o al vibrafono. Tra gli ospiti Lucio Dalla, Renzo Arbore, Pupi Avati, e molti altri. Ristampato nel 2004 come Impressioni di jazz]

A partire dal decennio successivo, ha cominciato a comporre canzoni che altri hanno interpretato: tra questi, per fare solo qualche esempio La coppia più bella del mondo (1967) per Adriano Celentano e Claudia Mori, Azzurro (1968) per Adriano Celentano, Messico e Nuvole per Enzo Jannacci (che in seguito interpreterà Bartali), Insieme a te non ci sto più (1968) per Caterina Caselli, Onda su onda per Bruno Lauzi (che darà anche una sua versione di Genova per noi), veri capolavori della musica italiana; andando avanti nel tempo, molti cantanti hanno interpretato i suoi pezzi, in Italia e all'estero, prima o dopo la sua esecuzione. «Come la lucertola è il riassunto del coccodrillo», per usare parte di un suo icastico aforisma sulla vita e il tango, la storia delle interpretazioni di Paolo Conte è il riassunto della musica "leggera" italiana e in Italia: Mina, Milva, Ornella Vanoni, Caterina Caselli, Patty Pravo, Mia Martini (la raffinata Spaccami il cuore. Don't break my hearth, esclusa inopinatamente nel 1985 da Sanremo, su uno dei picchi del triste ostracismo si cui fu vittima la cantante), Nada, Carmen Villani, Gigliola Cinquetti, Dalida, Shirley Bassey, Johnny Hallyday e Silvye Vartan, Roberto Murolo, Gabriella Ferri, Gianni Morandi, Giusi Romeo (che sarebbe stata Giuni Russo), Gipo Farassino, Bruno Lauzi, Enzo Jannacci, Pierangelo Bertoli, Franco Battiato, Ivano Fossati, Dalla e De Gregori, Claudio Baglioni, Roberto Benigni (al quale dedicherà ne 1988 Le chic et le charme) e Athina Cenci, Joe Barbieri, Franco Califano, Gianna Nannini, Fiorella Mannoia, Marlene Kuntz, Malika Ayane. per citare i nomi più importanti (una menzione particolare va allo stupendo tributo/rivisitazione della Piccola Orchestra Avion Travel, Danson metropoli - Canzoni di Paolo Conte, del 2007, che sviluppa in modo originale i brani contiani in lingua napoletana e altri ne traduce in quella lingua, ma in stretta continuità con la composizione del Maestro e che contiene un originale eseguito da Conte stesso).

Ma quando Conte si è "riappropriato" di qualcuna di queste canzoni, come Azzurro, Bartali, Messico e nuvole, Genova per noi, queste sono state quasi immediatamente “trasfigurate” dal suo personale modo di interpretazione (caso emblematico, Azzurro). E infatti...

Infatti, negli anni 70, diverse di queste canzoni e alcune altre verranno raccolte in due album, dall'omonimo titolo Paolo Conte, pubblicati nel 1974 e nel 1975. La novità è che Paolo Conte non è solo l'autore e il titolo: adesso è anche l'interprete. Conte si era quasi deciso ad abbandonare la musica per seguire la carriera di avvocato. D'altro canto, comporre per interpreti così diversi e famosi, era fonte di dispersione, e soprattutto lo costringeva ad adeguarsi a stili che non erano il suo. Così, seguendo il suggerimento del suo primo produttore, aveva scelto di diventare lui stesso interprete delle sue stesse canzoni, con la sua tipica voce da chansonnier, impastata dell'eco rauco del fumo. Si lancerà in una nuova avventura creativa, nella quale la sua ispirazione potrà fiorire, inaugurando uno stile unico e originale. Ma non lascerà il diritto, rimarrà comunque avvocato, esercitando la professione nel suo studio di Asti, fino a tempi recenti.

In questi primi album echeggia la vita della provincia italiana che si rialzava dopo la guerra, ritratta in piccoli quadretti della vita di piccoli uomini che scommettevano sul futuro, a volte malinconici nei loro quasi inevitabili fallimenti, a volte anche leggeri, e sottilmente autoironici.


L'album Un gelato al limon, del 1979, è una specie di ponte tra queste atmosfere di provincia del nord Italia e composizioni di più ampio respiro, nelle quali si intrecciano musicalità internazionali, francesi, sudamericane, napoletane, e sempre l'amato jazz. Le parole si fanno più eleganti, ricercate, suggestive, poetiche, allusive, enigmistiche (per le parole delle sue canzoni, Conte riceverà nel 1991 il premio di poesia Montale) e si declinano per assonanza in diversi idiomi e dialetti. Emergono i temi cari a Conte: il tempo che passa e ciò che permane; l'entusiasmo e le contraddizioni del Novecento; l'incapacità di comprendere l'identità del proprio tempo e della propria interiorità, che spesso si coglie ma non si riesce a spiegare, proprio come la musica, che per questo ne diventa strumento infallibile di decodificazione; il fallimento, l'inadeguatezza e la pigra speranza di una seconda occasione; l'attesa e l'esitazione; il disagio, la fuga, l'evasione nel sogno di un altrove ignoto; la quiete della provincia contadina o borghese e la suggestione delle terre lontane o delle grandi metropoli; la difficoltà di comunicare tra gli uomini, e in particolare tra gli uomini e le donne; il pudore che vela il sentimento, la malinconia e l'ironia che schiudono alla realtà; la donna misteriosa e seducente nel suo enigmatico nascondere e svelare il mondo al desiderio. Musica e parole, assieme in questo rigoroso ordine di composizione, manifestano uno stile ormai maturo, assolutamente unico (cosa che rende difficile etichettare lo stile di alcune canzoni come Max - che a tratti ricorda il bolero di Ravel - o Diavolo Rosso).

Queste canzoni, che vanno dall'1981 di Paris Milonga, via via fino ad Appunti di viaggio (1982), Paolo Conte (1984), Aguaplano (1987), Parole d'amore scritte a macchina (1990), Novecento (1992), Una faccia in prestito (1995), crescono in simbiosi con l'orchestrazione dei suoi concerti nei teatri e nei festival jazz, a partire dalla seconda metà degli anni 80, con meravigliosi arrangiamenti che ne esaltano e sviluppano le potenzialità. L'album/opera visuale e pittorica Razmataz (del 2000), di cui si è parlato sopra, è una sintesi comprensiva di tutto questo e per questo motivo l'ho scelta come perno di questo articolo.


Gli album del periodo seguente: Elegia (2004), Psiche (2008), Nelson (2010), Snob (2014), esplorano nuovi, sofisticati, territori, talvolta in chiave di ironia e divertissement, o declinano ulteriormente i temi, musicali e narrativi degli album precedenti.



Album live


Concerti (Cgd 1985)

Live (Cgd 1988)

Tournée live (Cgd 1993)

Tournée 2 live (Cgd 1998)

Live Arena Verona (Warner 2005)

Zazzarazàz - Uno Spettacolo Di Arte Varia (Platinum 2017)

Live in Caracalla - 50 years of Azzurro (Bertelsmann 2018)

Live at Venaria Reale (Platinum 2021, anche in vinile)


Come detto, nel periodo più maturo, la musica di Paolo Conte si sviluppa in simbiosi con l'esperienza dei concerti, a partire dal 1976, prima da solo al pianoforte - e talvolta con il kazoo, sua umile ed efficace orchestra portatile – (in trasmissioni televisive, piccoli club e teatri, da totalmente "apoliticizzato" ai Festival dell'Unità, e soprattutto nel contesto del Premio Tenco – il "festival dei cantautori" che dopo il suicidio di Luigi Tenco durante il Festival di Sanremo, organizzavano un evento separato nello stesso teatro Ariston. Conte vinse tra il 1983 al 2005 la Targa del premio), in seguito con un orchestra (che, aggiunti voci soliste e cori, arriverà in qualche caso fino ai 23 elementi), tenuti nei più prestigiosi teatri italiani (Smeraldo e Arcimboldi a Milano, San Carlo a Napoli, Sistina, Auditorium Conciliazione e Auditorium Parco della Musica a Roma, Teatro al Massimo e Teatro di Verdura a Palermo, ma ci sono anche l'Arena di Verona, le Terme di Caracalla, la reggia di Venaria Reale e nel 2023 Piazza San Marco a Venezia); e stranieri (con una predilezione particolare per Parigi e la sua casa: il teatro dell'Olympia, ma riscuote successi anche in Svizzera, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Francia e oltreoceano, negli Stati Uniti (per esempio, al Blue Note di New York e al Simphony Center di Chicago), in Canada e in Brasile; e nei più più importanti festival jazz: Montreux, Montréal, Nancy, Juan-Les-Pins. Lucca Summer Festival e Umbria Jazz lo vedono ospite frequente se non fisso. La scaletta, collaudata nel tempo, nei concerti degli ultimi due decenni comprende una ventina dei brani più maturi e apprezzati da un pubblico di fan incondizionati, ai quali aggiunge qua e là, alcuni pezzi del primo periodo (Azzurro, Genova). La sua band (un'orchestra lo accompagna dal 1984), composta da polistrumentisti, ciascuno con percorsi e attività autonomi, spesso formazione classica e impegno didattico in conservatori e scuole di musica, è stata completamente rinnovata nel 1990.


La sua composizione attuale è: Daniele Di Gregorio: pianoforte, batteria, marimba; Jino Touche: contrabbasso, chitarra; Daniele "Dani Piri" Dall'Omo: chitarra; Nunzio Barbieri: chitarra; Luca Enipeo: chitarra; Massimo "Max Pitz" Pitzianti: pianoforte, tastiera, fisarmonica, bandoneón, clarinetto, sax baritono; Claudio Chiara: basso, tastiera, fisarmonica, sax alto, sax tenore, sax baritono, flauto; "Sir" Luca Velotti: sax soprano, sax tenore, sax contralto, sax baritono, clarinetto; Lucio Caliendo: oboe, fagotto, percussioni, tastiere; Piergiorgio Rosso: violino; Francesca Gosio: violoncello; tra le voci, ricorrono frequentemente Ginger Brew e Laura Conti, come voce solista o vocalist.


La formazione precedente comprendeva: l'amico di lunga data Jimmy Villotti, chitarrista; tre musicisti collaboratori abituali di Francesco Guccini: Antonio Marangolo: sassofono; Ares Tavolazzi: basso e contrabbasso; Ellade Bandini: percussioni; e poi: Andrea Allione: chitarra; Tiziano Barbieri: basso; Mimmo Turone: tastiere; Vittorio Volpe: percussioni; Massimo Boccalini: clarinetto, sassofono; Claudio Capurro: clarinetto, sassofono; Marcello Crocco, flauto; Marco Lepratto: trombone; Miro Marchelli: tromba; Marie-Françoise Pelissier "Fanette": violoncello


Paolo Conte continua oggi a fare concerti con la sua band, a un ritmo più ridotto (dagli 80/100 annuali di un tempo, per un totale di circa 2000 in carriera, a una seletta dozzina alcuni dei quali per beneficienza). Gli eventi, sempre organizzati dalla Concerto Music, oggi diretta da Rita Allevato, sono annunciati nel Sito web ufficiale

La pagina Facebook ufficiale di Paolo Conte, propone via via spezzoni dei concerti e delle prove, man mano che si svolgono: https://www.facebook.com/paoloconteofficial


Nella scaletta compaiono i brani più apprezzati dal suo pubblico, con nuovi arrangiamenti, a volte, una voce più sommessa e intima, e un bruttissimo (opinione personale) drappo sullo sfondo (che sa di un vecchio che non gli compete) come coreografia. Il 19 febbraio 2023, Paolo Conte ha tenuto un concerto con la sua orchestra alla Scala di Milano, verosimilmente ne scaturirà un album e magari un dvd, vista l'eccezionalità dell'evento. L'invito da parte della Scala ha suscitato una vivace polemica in relazione alla continuità con la tradizione musicale del teatro milanese e alla possibile commercializzazione del concerto. Con biasimi e inviti a rinunciare (anche da parte di incondizionati ammiratori), da un lato, e con un'accoglienza entusiastica, dall'altro. A parere di chi scrive, probabilmente Conte è l'autore "leggero" (?) che, per il suo tipo di musica, assolutamente unico, più di qualsiasi altro avrebbe meritato il prestigioso invito, più del Nobel Dylan (che sarebbe stato incongruo) o del grande Lucio Dalla (per fare i due nomi che fungevano da argomento per il no, "se non loro, allora, perché Conte?"). Non credo sia solo questione, come è stato detto da fautori del sì, di inclusività, di evoluzione della musica, di ampiezza di vedute. Credo invece, e sarò forse tautologico, che Conte scriva della musica che è naturale che debba essere suonata proprio alla Scala, per ricchezza, raffinatezza, respiro, eleganza, per il modo di rappresentarla sul palco, per la sua idea di musica, per il modo del tutto originale, nella sostanza e nella forma, della sua sintesi artistica. Lo ha detto con le stesse parole Massimo Bernardini sull'HuffPost, dopo aver assistito al concerto: «Eccolo qui Paolo Conte, il frutto più elegante, maturo, della canzone d’autore italiana da molti decenni. Nessun altro meritava di più di essere qui stasera». Forse, oso ancora di più, dall'interno della forma canzone (e forse senza materialmente superarla), Conte ha raggiunto una terra che la trascende, un livello superiore e diverso, che può condividere con i grandi della musica "alta", proprio quelli che ci si aspetta di trovare alla Scala. Ma questa è un'idea del tutto personale Certo è che, per questi, e per altri motivi, Paolo Conte costituisce un unicum irripetibile nella musica italiana (non che sia migliore o peggiore di Dylan o Dalla, semplicemente è diverso), che si può intuire per sensibilità e circoscrivere per differenza, per le tante cose che non è o non del tutto o propriamente, e mi sembra che lo abbia colto bene Giuliano Sangiorgi, che nell'occasione ha sentenziato enfaticamente che «non ci sarà un altro come Paolo Conte». Quanto alla possibile deriva commerciale dei concerti alla Scala che fa giustamente storcere il naso a tanti (magari, si dice, "un giorno ci sarà Vasco, i Måneskin, Achille Lauro, Fedez, perché no, Baby K, un neomelodico napoletano"😀 o magari un ologramma con IA di Google o Amazon), non penso si corra questo rischio (ma chi può assicurarlo?); d'altra parte, il costo veramente proibitivo dei biglietti di questo concerto sinceramente non ha aiutato ad allontanare i sospetti (ma, nella realtà, l'ingresso alla Scala oggi è veramente accessibile a tutti?).

(Jino Touche, Daniele Di Gregorio, Massimo Pitzianti, Piergiorgio Rossi, Francesca Gosio, Paolo Conte, Claudio Chiara, Lucio Caliendo, Luca Velotti; Luca Enipeo, Nunzio Barbieri, Daniele Dall'Omo a Venaria Reale)


Conte ha composto musica per il teatro e per il cinema, parte di quest’ultima antologizzata nell’ormai introvabile Paolo Conte al cinema (Mercury 1990) e più recentemente, assieme ad altre composizioni rivisitate e studi inediti, nell'album esclusivamente strumentale Amazing Game (pubblicato dalla storica editrice classica Decca nel 2016); ha scritto la colonna sonora di un classico dell’animazione italiana La freccia azzurra, di Enzo d’Alò (Milano 1996), tratto da una favola di Gianni Rodari, che gli è valsa Il Davide di Donatello come miglior musicista e il Nastro D'Argento come miglior colonna sonora l'anno seguente; per il cd-rom Eugenio Montale. La vita e le opere, a cura dell’Assessorato della Cultura della Provincia di Genova, realizzato da Ludomedia/Sacis nel 1997, in occasione del centenario della nascita del poeta ligure, ha composto il commento musicale originale, ispirandosi al testo di dodici liriche montaliane. Allo stesso tempo, il cinema, non potendo avere Conte come attore (ci tentarono, senza successo, Fabrice Leconte, Sorrentino, Faenza/Mastroianni, Nanni Moretti), ha pescato ampiamente, in tutto il mondo, dalla sua produzione: lo hanno fatto, oltre a Sorrentino e Moretti , tra gli altri, Godard, Kasdan, Benigni, Pedro Almodóvar.

Nella sua lunga carriera, ha ricevuto tanti premi e riconoscimenti: è stato l'artista che ha ricevuto il maggior numero di Premi e Targhe Tenco. l'"Emmy" dei cantautori italiani (7 volte in tutto), ha ottenuto il David di Donatello come miglior musicista e il Nastro d'argento per la colonna sonora de La freccia azzurra. Ha vinto il Premio Montale (sezione: "poesia per la musica"). È Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana (1999) e ha ricevuto la Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte (2003), in Francia è Chevalier dans l'Ordre des Arts et Lettres (2001) e Grande médaille de Vermeil de la Ville de Paris (2011). Ha ricevuto la Laurea honoris causa in Lettere moderne all'Università degli Studi di Macerata (2003); la Laurea honoris causa in Pittura (per Razmataz) all'Accademia di Belle Arti di Catanzaro (2007), per "la conclamata competenza nel campo della pittura"; e la Laurea honoris causa in Musicologia all'Università di Pavia (2017). È professore ad honorem dell'Università degli Studi di Parma in Linguaggi musicali della contemporaneità. L'Università di Macerata gli ha dedicato un volume di studi nel settembre 2023.


Di recente, Conte, ottanteseienne, ha dichiarato di non avere in progetto nuove composizioni, e di toccare raramente il pianoforte, e che, una volta conclusa la professione forense, si dedica, con passione e con l'abituale discrezione, all'amata pittura (il suo al momento ultimo pezzo musicale è dedicato proprio a un pittore, El Greco) e all'ascolto della musica classica, «che non tradisce mai».


Concerti pubblicati in video


Paolo Conte Tv Recital (Videobox/Cgd Videosuono 1989), registrato a Lugano, 1982, per la Radio Televisione Svizzera Italiana


Nel cuore di Amsterdam (Warner Music Vision 1989), registrato al Theâtre Carré di Amsterdam, il 4 dicembre del 1988, in DVD dal 2003


Paolo Conte Live in Montreux (Warner Music Vision 1991), registrato al Montreux Jazz Festival


Paolo Conte in concerto (Ricordi 1991), registrato per la Radio Televisione Svizzera Italiana, nel settembre 1991


Live Arena di Verona - DVD (Warner 2005)


Libri



I testi


Paolo Conte, Le parole, con prefazione di Doriana Fournier, Umberto Allemandi, 3ª ed. Londra-Torino 1999 (le liriche di Paolo Conte hanno ricevuto il premio Montale, sezione “Versi per musica”, il 30 settembre 1991): con testo a fronte in lingua inglese, tradotto da Richard Dury.



Monique Malfatto, Paolo Conte, colléction “Poésie et Chansons”, Seghers, Paris 1989


Paolo Conte, Razmataz, Commedia Musicale (con DVD), Feltrinelli, Milano 2019 *****



Biografia e interviste



Paolo Giovanazzi, Paolo Conte. Il maestro è nell'anima, Reggio Emilia, Aliberti, 2010


Massimo Cotto, Fammi una domanda di riserva: Paolo Conte in parole sue raccolte da Massimo Cotto, Mondadori, Milano 2017 (raccolta di preziosi testi di interviste inedite dell'autore e di brani di interviste altrui) *****


Massimo Padalino, Paolo Conte. Storia del poeta che dipinse la musica, Odoya, Bologna 2021


Giorgio Verdelli, Paolo Conte, Sperling & Kupfer, Milano 2022 (ottima introduzione) *****



Sul mondo e gli amici di Paolo Conte


Conte. 60 anni da poeta, a cura di Enrico de Angelis, collana “Radici”, Franco Muzzio editore, Padova 1989; aggiornato e proposto in una bella veste grafica: Enrico de Angelis, Tutto un complesso di cose. Il libro di Paolo Conte, Giunti, Milano 2011 *****



Sulle canzoni


Fernando Romagnoli, Una luna in fondo al blu. Poesia e ironia nelle canzoni di Paolo Conte, Bastogi, Foggia 2008


Ernesto Capasso, Paolo Conte. Il viaggiatore dei paesaggi cantati, Arcana, Roma 2016


Federico Pistone, Tutto Conte: Il racconto di 240 canzoni, Arcana, Roma 2019


Studi e analisi


Manuela Furnari, Paolo Conte. Prima la musica, Il Saggiatore, Milano 2009 *****


Mauro Bico e Massimiliano Guido, Paolo Conte. Un rebus di musica e parole, Roma, Carocci, 2011 *****


Marcello Verdenelli, Ilaria Tufano, Manuela Furnari, Paolo Conte: Transiti letterari nella poesia per musica, Urbino University Press, Urbino 2023 (scaricabile gratuitamente dal sito dell'editore: https://press.uniurb.it/index.php/incontriepercorsi/catalog/book/37



Concerti live su youtube


Su youtube sono disponibili alcuni video di concerti live, la qualità video spesso lascia a desiderare, ma l'audio è soddisfacente. Per lo più sono tratti da antiche VHS ormai non più in commercio. Tra questi, un capolavoro è il live allo Jazz Festival di Montreux del 1989. Tutti, tranne l'ultimo (che vale la pena vedere), sono con la prima formazione della band. È una presenza precaria, a volte ci sono, a volte scompaiono, al momento alcuni – il Razmataz al Teatro Smeraldo di Milano – non sono più reperibili.

(Sul palco del teatro Ariston di Sanremo per il Premio Tenco 1986, Roberto Benigni, Paolo Conte, Francesco De Gregori)



Paolo Conte - Recital at Swiss Television (1982)


Paolo Conte - Live Juan-les-Pins, Festival International du Jazz (1986)


Paolo Conte - Live @RSI (1988)


Paolo Conte - Nel cuore di Amsterdam Live (1988)


Paolo Conte - Live in Montreux Jazz Festival (1989)


Paolo Conte - Live TMC (concerto completo) 1996

Sempre su youtube si trovano anche diverse delle performance di Paolo Conte al Club Tenco e la famosa canzone di Roberto Benigni Mi piace la moglie di Paolo Conte https://www.youtube.com/watch?v=15a1TeMP6xo












Interviste video


con Vincenzo Mollica, 2003


con Fabio Fazio Che tempo che fa


Sono tantissime poi le interviste rilasciate a giornali e riviste, ricche di tanto materiale interessante.



Documentari


Paolo il Caldo, documentario di Pupi Avati (1980)

quasi un "prima di Conte"


Paolo Conte - Special Una faccia in prestito, (2011)


Documentario Arte (2011). Purtroppo non reperibile in italiano (a volte confuso con il documentario precedente per alcune scene in comune), qui in francese (è un documentario non lungo ma forse è il più interessante, anche per il coinvolgimento di alcuni musicisti della sua band)

Paolo Conte, Via con me, documentario di Giorgio Verdelli (2020). Forse il docufilm che mancava e che arrivava al momento giusto. Forse la realizzazione più sofisticata e ambiziosa, interessante per i dialoghi con Paolo Conte, ma di fatto non utile come introduzione per il "profano" all'autore (se ne parla con un taglio un po' estetistico che finisce per risultare disordinato, parziale, con l'intento, probabilmente, di fare qualcosa di originale), intervengono personaggi importanti che lo hanno conosciuto (Benigni, Capossela, Paolo Jannacci, De Gregori, Bollani) ma sostanzialmente si tratta camei che non aggiungono nulla di rilevante, semplici impressioni entusiastiche condite da qualche aneddoto personale. Non è nemmeno di grande interesse, a mio parere, per gli appassionati che magari hanno assistito a qualche concerto, perché si usano molti spezzoni, anche qui inseriti e tagliati in modo abbastanza impressionistico. Direi che la forma confonde la sostanza. Come si direbbe a Palermo: "non leva e non mette", forse "più leva che mette". Non sono l'unico a pensarla così. Eppure il libro pubblicato da Verdelli l'anno seguente è un'ottima introduzione (fastidiosi solo gli insistiti spot per il docufilm), e la raccomando. In ogni caso, il docufilm si trova su Raiplay.


Interventi pubblici


Su youtube si trovano anche i video delle Lectio tenute per il conferimento di due Lauree honoris causa

Lectio Doctoralis all'Università degli Studi di Macerata (2002): I Tempi dell'Ispirazione: il Pomeriggio. https://www.youtube.com/watch?v=oz-6qjBHCpA&t=6s


Laurea honoris causa presso la facoltà di musicologia dell'Università di Pavia, sede di Cremona - 9 ottobre 2017 (da 51' 20'')



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