La crepa e la luce
- Marco D'Avenia
- 14 lug 2023
- Tempo di lettura: 18 min
Aggiornamento: 13 nov 2023

Il libro di Gemma Calabresi Milite in poche ore di lettura trasmette il respiro ampio dell'essenziale. Parla di trauma, di perdono. di accompagnamento e di fede.
La storia è semplice e nota, la riassumo in breve. Il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, fermato il 13 dicembre 1969 per essere sentito nell'àmbito dell'inchiesta sull'attentato di Piazza Fontana a MIlano, era morto due giorni dopo, precipitando da una finestra del quarto piano della questura del capoluogo lombardo. Le indagini appurarono che Pinelli ebbe uno svenimento per lo stress della carcerazione e dell'interrogatorio, si appoggiò al basso davanzale della finestra e cadde di sotto. Un gran numero dei più importanti intellettuali italiani, molta stampa e il giornale del movimento militante di estrema sinistra Lotta continua accusarono l'allora trentenne commissario capo Luigi Calabresi di aver spinto giù lui Pinelli nel corso dell'interrogatorio. Già allora si sapeva che Calabresi non si trovava nella stanza al momento dell'incidente, il che fu definitivamente confermato nel 1975. Sta di fatto che per tre anni Calabresi divenne il bersaglio di una violentissima campagna di stampa ricevendo continuamente pubbliche minacce di morte. Alla fine, la mattina del 17 maggio 1972 Luigi Calabresi venne ucciso a colpi di pistola da militanti di Lotta continua sotto la sua abitazione di via Cherubini a Milano, mentre si stava recando al lavoro. Nel 1988, un ex militante del movimento eversivo, Leonardo Marino, pentito, si costituì, dichiarando di esser stato l'autista del killer di Calabresi, Ovidio Bompressi, i mandanti del delitto erano i due leader di Lotta continua Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Dopo un processo di circa otto anni gli imputati vennero condannati a 22 anni di carcere (Marino a 11). Tutti scontarono la pena tranne Pietrostefani il quale, mentre si svolgevano le udienze per la revisione del processo fuggì in Francia. Il paese transalpino, in linea con la"dottrina Mitterand", ad oggi non ha concesso l'estradizione. Tra ulteriori ricorsi, appelli e richieste di grazia, l'iter giudiziario durò altri otto anni, per un totale complessivo di sedici. Per buona parte del tempo del processo, i Calabresi dovettero sopportare il peso di essere considerati degli approfittatori, la moglie e i figli di un assassino. Il 14 maggio 2004 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì la medaglia d'oro al valor civile alla memoria del commissario Calabresi, 32 anni dopo l'omicidio. Nel 2009, Adriano Sofri chiese pubblicamente scusa alla vedova Calabresi per la campagna di stampa contro il marito: furono in pochi a farlo.

(spoiler alert: è una recensione un po' particolare, seguo passo passo il libro, ci entro, ci esco, ci rientro. Utilizzo anche informazioni ricavate da incontri pubblici. Tutto questo perché serve alle considerazioni che faccio. Chi non ha letto il volume, forse può leggerlo prima della recensione per non perdere nulla della forza della narrazione. Forse il libro si legge in meno tempo ed è sicuramente molto più bello 🙃)
Il libro si apre con due racconti.
Gemma Capra ha 25 anni, è la moglie di Luigi Calabresi da poco meno di tre, è madre di due figli (Mario di due anni e Paolo di uno) e incinta al terzo mese del terzo (che sei mesi dopo erediterà il nome del padre Luigi). Ha appena salutato il marito che andava in Questura. Sono passate da poco le 9,30. Arriva una domestica, che vede quella mattina per la prima volta, per un giorno di prova; è in ritardo perché "hanno sparato a un commissario". "mio marito è un commissario", con prontezza di spirito la donna intuisce e replica che la sparatoria era avvenuta in un luogo più lontano. Poco dopo, un vicino amico di famiglia bussa alla porta perché la vittima dell'agguato era proprio il marito. La prima reazione è un urlo straziante, un "no" disperato. Senza una logica, per difendersi dalla notizia, si mette a girare su se stessa, con il figlioletto Mario attaccato alla gonna che spaventato cerca di tenere lontano quell'ambasciatore. La casa si riempie subito di persone, si parla di un intervento chirurgico in corso. Gemma decide di andare all'ospedale, ma prima deve lasciare i bambini ai nonni. Quando arriva dai suoi genitori, ancora si attendono notizie o si finge di aspettarle. Chiede a don Sandro, il parroco che che l'aveva sposata e l'aveva accompagnata fin lì. Lui conferma con uno sguardo e un labiale senza suoni, Gemma sente un dolore lancinante, crolla sul divano e con lei crolla la sua vita precedente. Dopo un po' di tempo, in quel momento di dolore straniante, avverte forte vicina la presenza di Dio, che le da una grande pace e una forza enorme. Chiede a don Sandro di recitare un'Ave Maria per la famiglia dell'assassino.
Il vero inizio del libro però è una confessione: durante il primo anno dopo il delitto, la sera, quando andava a dormire, in quel quarto d'ora di veglia che le concedeva un sonnifero, le veniva spontaneo progettare di infiltrarsi travestita in mezzo al gruppo che aveva sparato al marito, guadagnarsi la loro fiducia per individuare l'assassino e, una volta scoperto, ucciderlo.
Sono queste le due forze in campo di un lungo conflitto interiore, dall'esito tutt'altro che scontato.

Il dolore e la vocazione al perdono
Nel volgere del racconto vengono descritti con precisione alcuni eventi, ovviamente il momento dell'annuncio e della conferma della morte è l'inizio e il centro di tutta la storia. È un momento indelebile di dolore che non si può eliminare né dimenticare. Quell'esperienza di morte rimane dentro, viva e allo stesso tempo, sorda, specialmente all'inizio: non parla e non ci si può parlare. L'accompagnerà per tutta la vita a venire.
In un primo periodo dominano ovviamente la confusione e lo smarrimento. Vive come in una bolla, in un tempo e uno spazio tutti suoi. Le cose hanno perso il loro senso, manca la terra sotto ai piedi. Il presente è sospeso, Il prima non vale più per il poi. Il poi non esiste.
Man mano che riprende una vita normale, scopre che il mondo di prima adesso le appare ostile. Le cose, nella misura in cui prima erano care, sono diventate spigolose. Quella casa, quelle strade così amate e familiari, adesso «fanno dolore» (succede nei traumi), sono divenute «carta vetrata» che gratta via la sottile epidermide che prova a formarsi sulla ferita. Bisogna cambiar casa, cambiare quartiere, cambiare percorsi.
Il vuoto interiore è profondo, c'è la sensazione di essere monca, priva di qualcosa, incompleta, In più, la famiglia di una vedova con bambini non si accorda più con «le geometrie perfette» delle famiglie di amici che nel frattempo hanno avuto il loro normale sviluppo di crescita. Ed è la famiglia di un "assassino" che doveva essere punito. C'è disagio, anche vergogna.

In questa lucida fenomenologia del trauma, vera ma senza compiacimenti o eccessi narrativi, la luce inizia a filtrare dalla crepa. La luce è anche quella da sempre presente all'interno dell'evento dell'annuncio, sta in quella preghiera spontanea per la famiglia dell'assassino del marito, ispirata da un DIo di pace che è venuto da lei e recitata seduta sul divano, con un prete a fianco.
Dio in quel momento c'era e suggeriva il perdono. Ma quella presenza non diede la forza di un perdono immediato, fu piuttosto una vocazione al perdono, una strada da percorrere per dare un senso e una direzione a un'esistenza. Un'occasione per "dire la sua".
Il necrologio che decide di pubblicare su suggerimento della madre riportava le parole di Gesù: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». Divenne il motto di un discorso che volta a volta si apriva, si fermava, si chiudeva, si riapriva.
Gli altri
Si parla di un itinerario personale ma qui è palese come la salvezza sia un fatto di relazioni. Qualsiasi cosa si faccia o si voglia fare, la si fa con altri.
All'inizio c'è una gentile e sconosciuta domestica. C'è un amico che comunica la notizia e che sarà sempre presente con discrezione negli anni a venire, C'è il sacerdote che ha sorretto il primo dolore. Ci sono i genitori che la riaccolgono in casa, le sorelle e i fratelli che le stanno vicini e l'aiutano, creando le condizioni perché lei possa ricominciare. Alcune presenze si rivelano inadeguate, vecchi amici addirittura giudicano e condannano: in fondo però se l'è cercata, "d'altronde, chi la fa, l'aspetti".

Da qualche anno Gemma ha iniziato a insegnare religione in una scuola elementare milanese, Lì incontra Tonino Milite, anche lui collega e stimato pittore e poeta che diverrà presto suo marito e con naturalezza "il papi" dei suoi tre figli (sono passati dieci anni). Inizialmente ignaro di chi "fosse veramente" quella professoressa, si prende il suo tempo ma alla fine decide di condividere anche lui la vita di quella famiglia, Diventa una presenza coraggiosa e protettrice, saggia e discreta, indispensabile, ma che rimane dietro le quinte, al punto che a volte, scherzando, si presenta alla gente come "il fantasma". Ma c'è sul serio (sarà evidente quanto inaspettatamente morirà, dopo un tumore e il precoce insorgere di una malattia degenerativa. A 69 anni, fu «l'unica volta che mi sono arrabbiata con Dio»). Gemma e Tonino hanno un figlio, Uber, «il ponte che ci ha uniti», che si inserisce anche lui in questa storia come uno tra i fratelli, ma che «è sempre stato leggermente laterale, e questa è stata per noi una grandissima risorsa e anche un conforto: spesso il suo vedere qualcosa di buono, dove noi non riuscivamo, ci ha fatti stare meglio». Le relazioni profonde di affetto condividono un legame che aiuta ad assumere punti di vista diversi perché ci si fida dell'altro.

Una cosa diventa sempre più chiara e deve cominciare a ripeterla anche ai figli: non bisogna crogiolarsi nel vittimismo, la rabbia è legittima ma non deve mai sequestrare completamente una persona o una famiglia. Bisogna andare avanti anche quando non si riesce a dimenticare, perché «la memoria ha le gambe». Ma non si può nascondere qualcosa che non può più essere nascosto, che non è solubile nella memoria. Di certi eventi non si può fare tabula rasa, tirare una linea e andare avanti come se niente fosse stato. Gemma affronta con coraggio il dolore e ed è per questa strada che matura poco a poco il perdono: non cerca una sorta di nirvana, il suo è piuttosto quello che i tragici greci chiamavano páthei máthos: si conosce veramente soltanto attraversando la passione, sia essa benefica o dolorosa: in questo caso è al limite dell'incomprensibile e dell'inaccettabile. Sicuramente, è una donna più aristotelica che stoica. Oggi, in un mondo confuso e in continuo cambiamento come quello del IV secolo a. C., abbiamo spesso la naturale tentazione di vivere materialisticamente come stoici distaccati dalle sofferenze invasive (oppure come epicurei raffinati o superficiali o come cinici pessimisti, dipende).
Mentre cerca di rispondere a un piccolo alunno che domandava «perché quelli che muoiono sembrano sempre bravissimi», comprende che in tutti c'è sempre qualcosa di bello che merita di essere ricordato.
Anche negli uomini imputati che ha davanti al processo che inizia nel 1988. Li incontra tutte le settimane per tanti anni (qualcuno della famiglia sarà sempre presente alle udienze, che spesso duravano l'intera giornata), Capisce che non sono solo degli assassini: guardando tra il pubblico nota i loro gesti d'affetto alle mogli e alle figlie. Gesti ricambiati. C'è qualcuno che li ama, qualcuno che soffre per loro, qualcuno per cui restano buoni mariti, buoni padri, uomini a cui vogliono bene.
Quando si cerca giustizia, non si può ridurre un uomo a un ruolo, a una parte della sua vita, a un errore, cristallizzarlo definitivamente in un male irredimibile. In ognuno c'è uno spazio umano. Raggiungendo quello spazio, si possono creare ponti, legami che rendono più facile il perdono. Gemma capisce che evocando quello spazio interiore, quegli uomini «li metteva nella vita, nel mondo, nelle relazioni con gli altri», li restituiva alla loro essere uomini liberi, gli donava uno spazio nuovo per poter ricominciare. Mentre chiedeva giustizia, insieme preparava le condizioni interiori per la loro libertà. Certamente, non tutti accettavano l'offerta, qualcuno non era pentito affatto, alcuni si pentivano ma non volevano ammetterlo, altri non volevano o avevano la forza di scusarsi. Non doveva esser facile farlo nel clima pesante di quei tempi. In ogni caso, le era chiaro che l'essenza del perdono è di essere «dono senza contraccambio». Si capisce negli ultimi capitoli come il suo perdono alla fine arrivi poco a poco anche a costoro, Non c'è un perdono cumulativo, ci sono diversi perdoni, ognuno è una storia a sé: «un ponte si fa in due", quello per Marino è diverso da quello per Pietrostefani. E comunque, mai si percepisce in lei una specie di "spocchia del perdono", il vanto di una superiorità morale.
Il desiderio di mettersi nei panni degli altri, di aver compassione, per avvicinarsi e poi anche perdonare, in una parola di essere misericordiosi non esclude assolutamente la richiesta legittima di giustizia umana. Chiesta per il marito, per i figli, per se stessa. Nella seconda parte del libro, misericordia e giustizia si tengono in equilibrio, si vede che a un certo livello del cuore umano sono poli che possono convivere assieme in una tensione naturale. Penso che leggendo queste pagine si intuisca un riflesso dell'essere di Dio, mai solo giusto, mai solo misericordioso. Forse Dio è proprio il nome di giustizia e misericordia in equilibrio, il che per gli uomini è spesso un mistero, ma che forse comprende meglio chi conosce la fatica del perdonare o di accettare il perdono.

Ed ecco ancora comparire lungo il cammino una compagnia di "personaggi secondari", se non quasi di "comparse" silenziose, che hanno giocato il loro piccolo ruolo nella vicenda, sostenendo, alleviando, pregando. La vicina di casa che si era affacciata alla finestra al momento dell'omicidio (la casa dei Calabresi dava sul cortile interno, «quel cortile mi ha regalato una decina di minuti in più della vita di prima, quella in cui la felicità era ancora un concetto possibile») e le racconta di aver pregato con la madre per la vicina che ancora non sapeva di essere vedova. A volte erano sconosciuti, incontrati per strada, sulla metropolitana, al supermercato, come il medico che la abbraccia per strada dicendo che le era vicino, anche se lui "non era nessuno", o la coppia che incontra in Svizzera tanti anni dopo: le confidano di essersi sposati il giorno stesso dell'omicidio, il giorno in cui lei chiudeva il capitolo del suo matrimonio, loro lo iniziavano, e che da quel giorno avevano pregato quotidianamente per lei. Ci sono persone umili e presidenti della Repubblica. Ci sono anche la solidarietà e l'abbraccio con Licia Pinelli, vedova di Giuseppe, anche lei dovette affrontare una giovane vedovanza con due figlie piccole.
Tutte queste presenze, di prossimità umana e spesso anche di fede, sono state indispensabili per sostenere la fatica del cammino. «Non sono stata io che ce l'ho fatta, siamo noi che ce l'abbiamo fatta e per questo voglio ringraziarvi», commentava in un incontro pubblico a Milano.
A ben vedere, le relazioni non sono state soltanto una risorsa "passiva". Aiutare gli altri in questa situazione è stato importante per crescere e per comprendere meglio. È maturata nel momento di tenere in equilibrio il suo percorso doloroso, la sofferenza dei dei figli, una pressione mediatica di calunnie che saturavano l'ambiente intorno, il desiderio di essere giusti e anche rispettosi nei confronti dei colpevoli. Il cuore si è dilatato mentre aiutava i figli a comprendere quello che era successo, a farci i conti ciascuno a suo modo, rispettando i loro tempi, a intraprendere un loro percorso su questa strada, magari differente dal suo o con esiti differenti.
Negli ultimi anni, la decisione di raccontare la propria vicenda in pubblico, partecipando a incontri con la gente, ha aiutato a «chiudere i cerchi». Una pace raggiunta ha deciso di diventare una pace da condividere e comunicare. In particolare, lei ribadisce che più che parlare in pubblico (che le costa fatica), le piace parlare con le singole persone che vanno da lei alla fine degli incontri per confidare i loro problemi personali. Sono persone di ogni tipo e convinzione. In ogni caso, è bene notarlo, si percepisce che non è una persona che vuole convincere nessuno, che ha una sua agenda personale da realizzare. Racconta senza enfasi la sua vita, è una persona in pace e una persona che trasmette pace, libera dal peso dei giudizi.
La fede
Ovviamente, libertà interiore e perdono in questa vicenda sono legati alla fede. Sull'intervento di Dio al momento di ricevere la notizia, non so, non saprei pronunciarmi. Lei testimonia di "aver sentito DIo vicino", allora. Non so dire (chi potrebbe, se non lei e un competente direttore spirituale) se fosse un fenomeno mistico, qualcosa di straordinario. Sicuramente, la protagonista del racconto è una persona normale e concreta, aliena a misticismi. Inutile parafrasare o riassumere il testo su questo punto.
«Forse si può pensare che questa sia la suggestione di una donna di fede, ma allora la mia fede era qualcosa di profondamente diverso da ciò che sarebbe diventata poi. Ero credente non per scelta ma perché, per educazione, non avevo avuto altre alternative. Per tradizione, abitudine, per far contenti i miei genitori. Qualche volta, confesso, mi costava anche fatica. Invece su quel divano è successo qualcosa che ha radicalmente cambiato tutto: Dio ha abbracciato me, e io lui. Non ho memoria di quanto durò, ma ogni cellula del mio corpo ricorda quella pace che ho ricercato, trovandola, ogni volta che la tempesta è tornata a scuotere la mia esistenza. Quando mi sono sentita di nuovo sola e smarrita, mi sono ricordata che Dio era venuto da me e, anche se non l'avesse fatto ancora, quello che importava è che l'aveva fatto quella volta».
Così, se qualcosa di straordinario c'è stato, di certo non l'ha estraniata dalle vicende umane, non è stata una fuga dalla realtà. Al contrario, l'ha immediatamente riportata nella vita ordinaria, da dipanare e ricostruire come qualsiasi altra vittima di un lutto tragico, ma con una memoria chiara di luce nell'apice del dolore. Non ha risolto il problema, lo ha illuminato, inizialmente solo di una luce flebile. Che avrebbe potuto tristemente spegnersi nella disillusione o nella tristezza, se non ci fossero stati coraggio e concretezza per seguirla, per farle spazio. Si capisce che ha avuto accanto persone di fede che l'hanno aiutata e che il percorso sia divenuto sempre più essenzialmente un rapporto consapevole e personale tra lei e Dio.
Mi sono fatto alcune domande, per cercare di capire su che cosa poggi ultimamente questo racconto e quelle che possono essere alcune conseguenze.
Mi sono chiesto: dove viene raggiunta e raccolta una persona disperata perché vittima di un'ingiustizia? Come la vede Dio?
(Lo stesso vale per chi deve essere perdonato perché ha commesso delitti tremendi, chi è stato spietato carnefice, al quale sembra essere lasciata appunto solo la disperazione. un capitoletto del libro è dedicato a questo).
E, che è poi la stessa domanda, guardando "dall'altro lato"
che cosa vede di Dio una persona che cerca di perdonare o di esser perdonata perché altrimenti la sua vita, anche quella precedente, sprofonderebbe nel nulla?
Mi sembra che qui la risposta sia chiara: vede un Dio misericordioso che perdona e che, perdonando quella persona lì, apre uno spazio del cuore da cui può muovere il perdono.
Come prega una persona ridotta a niente, sull'abisso del non-senso, spogliata e indifesa?
Prega parlando con Dio a tu per tu, raccogliendosi ogni tanto nel silenzio di una casa, di un paesaggio di montagna o di una chiesa; se è cattolico, si lascia ispirare dalla Scrittura e dalla liturgia, e fortificare dai sacramenti. Questo suo modo di pregare «è una spiritualità calata nel quotidiano», «Dio ti sta vicino e ci puoi parlare. Papa Francesco ha detto che a DIo possiamo dire tutto, anche le cose più sciocche, se per noi sono un peso, e io faccio così quando prego. Parlo con Dio molto spesso». Dio non abbandona ma lascia nel quotidiano degli uomini, in mezzo alla vita normale, dove ci si gioca tutto, la terra e il cielo. Non è qualcosa riservato solo ai cristiani, basta leggere ad esempio Etty Hillesum. Inoltre, spesso, chi affronta situazioni del genere è facile che acquisisca anche nell'amicizia una propensione alla confidenza a tu per tu. Va subito al nocciolo.
Come vede gli uomini una persona che vuole veramente perdonare?
Non può vederli secondo solo secondo uno standard di perfezione. Da questa prospettiva si è condannati costantemente a esser delusi e anche risentiti e giudicanti. Il punto di partenza vero è che siamo circondati da persone che provano a essere buoni, partendo sempre dai loro limiti. Questa persona deve capire che gli uomini, lui, lei per prima, sbagliano. Ma che sbagliare non è tutto e non è definitivo, che c'è un fondo di bene in ciascuno e che ciascuno ha costruito almeno un po' di bene. Che ogni bene è perfezione ed è anche un piccolo e grande miracolo. È proprio questo che deve essere celebrato. E da qui si parte per redimere il male.

Umano è parola ricorrente nel libro. Restituire l'umano, cercare l'umano per «costruire ponti». Gemma si interroga sul fatto che sia stato proposto per due volte un processo di beatificazione del marito: senz'altro, il suo lavoro e la sua vita erano strettamente legati a una fede personale vissuta e praticata nelle opere. A suo parere, però, non è una buona idea.
«Gigi (...) era un uomo, non un santo, Era una persona normale», «ha fatto un lavoro che ha scelto e che amava, un mestiere di cui conosceva i rischi. Nella sua vita ha fatto del bene come tanta altra gente. Ha lavorato con passione come tanti».
I santi spesso nascosti che abbiamo accanto e salvano il mondo sono gli ultimi. Vero. Non escluderei però categoricamente la santità della gente normale, proprio perché hanno vissuto «con passione come tanti». Quelli come noi, che ci stanno vicini, gli ormai famosi "santi della porta accanto". È importante dato che noi sperimentiamo soltanto la santità incarnata e quindi umana. Il santo per un cattolico è DIo che appare nell'umano. E servono allora i santi normali del quotidiano. Nel modo di vivere la propria vita, nel modo di perdonare, il santo rende Cristo presente in questo mondo. Giusto e sano senza dubbio è sospendere giudizi di santità in vita ed essere cauti dopo la morte nell'attribuire frettolosamente passaporti per il paradiso. Al tempo stesso però tutti possono aver conosciuto qualcuno (cristiano o no) e aver esclamato dopo almeno un "se c'è un DIo, deve essere un po' come quello che vedo in quest'uomo, in questa donna". Questo porta immediatamente al punto seguente, che è forse quella che mi ha coinvolto maggiormente.
La santità è opera di Dio o dell'uomo?
È da sempre la questione centrale quando si parla di santità. La pienezza della vita cristiana è più opera di Dio (e l'uomo sostanzialmente è "trasportato" passivamente, non ci mette nulla di se) o è tutto merito dell'uomo (che quindi meriterà una ricompensa sulla base dei suoi soli sforzi)?
Non è una questione teorica o che interessa solo cristiani cattolici o protestanti. Ci chiediamo spesso se la nostra felicità, il nostro fiorire nella vita, realizzare talenti, anche prosperare economicamente, dipendano da altri, da esseri superiori o da altri uomini, da un amore, da un'amicizia (anche dal caso o dalla fortuna) oppure dipendano esclusivamente da noi e da noi soli. Basta farsi un giro in libreria tra gli scaffali di psicologia o di self-help per capire quanto la cosa ci tocchi tutti. Chiaramente, i filosofi l'hanno considerata da sempre una questione capitale.
Nella teologia cattolica del Seicento il dibattito fu molto acceso e produsse un conflitto tra due agguerrite fazioni (conflitto, in genere, tra gente buona e umile). Alla fine il Papa intervenne, dichiarando fosse meglio sospendere le ostilità e passare ad altro. In sostanza, la questione allora rimase senza una risposta definitiva, ma forse non poteva proprio essere risolta. O meglio, si è capito che non può essere risolta se si isola solo uno degli estremi. dove finisce Dio e dove inizia l'uomo? Leggendo questa storia di perdono, si vede tutta l'umanità di una donna, tutti i suoi talenti (e le fragilità, i condizionamenti, i limiti) che maturano verso una armonia pacificata. Si vede solo l'uomo. Allo stesso tempo, si può vedere tutta l'azione di Dio che perdona e insegna a perdonare, che sostiene in situazioni che veramente sarebbero impensabili da affrontare. Si vede solo Dio. È una visione bifocale che fa vedere insieme Dio e l'uomo, ed è la logica dell'Incarnazione di Cristo. Lascio in sospeso la domanda se questo sia possibile anche per chi non è cristiano e a maggior ragione per chi pensa che Dio non esista,

Un'ultima considerazione
A pochi in questa vita è stata regalata una bacchetta magica. Molti terapeuti spendono buona parte del loro tempo a smontare le illusioni del pensiero magico dei loro pazienti, Le cose della vita il più delle volte non si risolvono immediatamente, richiedono «il tempo degli uomini». Non basta aver capito un concetto importante e suggestivo (perdonare, ad esempio). Si può gioire intellettualmente per la scoperta, pensare di averlo veramente compreso, immaginare che dall'indomani saremo persone diverse, in grado di metterlo in pratica senza errori. È in matematica che dalle premesse scaturiscono immediatamente delle conclusioni. Ma la vita non è una semplice conseguenza logica. Si va avanti, a volte ci si ferma, a volte si torna indietro. Spesso si cita Agostino che avrebbe detto che "chi non avanza non solo non rimane fermo ma retrocede" (1)
Questa frase, se la si isola dal contesto, non è del tutto corretta perché a volte si sta fermi o si retrocede senza che questo voglia dire non avanzare. Penso che, in un'ottica cristiana, si possa dire che quando l'uomo di buona volontà non avanza, è Dio che lo fa per lui, e anche chi gli sta vicino a volte se lo prende sulle spalle del corpo o dello spirito. Si avanza insieme agli altri anche se non ci si muove, come Anchise sulle spalle di Enea. Anchise non si è mosso, eppure ovviamente è andato avanti. Voleva andare avanti anche se non poteva camminare. E proprio nel testo originale e completo di Agostino a cui si fa riferimento, egli dice anche e prima di tutto che in questo cammino non si è soli, ci si aiuta a vicenda, ci si incoraggia a vicenda, si aspettano i ritardatari e si recupera chi ha sbagliato strada. E che, prima di ogni altra cosa, «noi ci affrettiamo verso Dio non a passi, ma con gli affetti». E a volte anche senza affetti. Tutto questo è chiaro ne La crepa e la luce.
Non vale solo per i cristiani. È un carattere antropologico universale, sul quale la fede si innesta in modo naturale, La crescita nella vita non si può ridurre semplicemente alla dinamica fisica di un piano inclinato senz'anima, a seguire istruzioni funzionali da manuale di management, Ci si dimentica che c'è un'interiorità che deve maturare liberamente, a volte sbagliando, che maturare è già avanzare, che si avanza anche imparando a "disporsi ad avanzare" e che l'avanzare non è mai solo del singolo individuo. Le cose umane, il perdono a maggior ragione, esigono tempo e pazienza. Non riuscire ad andare avanti non è sempre una sconfitta, può essere anzi una forte crescita interiore. Non solo per se stessi ma anche per chi sta accanto che è chiamato ad accompagnare. Chi è genitore o sposo, chi è amico, chi pratica qualsiasi forma di accompagnamento, spirituale, psicologico, di studio, professionale dovrebbe saperlo. Creare e concedere spazi per la sosta. Non si risolve tutto subito, non si tirano le pianticelle per farle crescere.
Allo stesso tempo, non si possono risolvere tutti i problemi degli altri, a maggior ragione i loro dolori. Ci sono passaggi stretti che si devono attraversare da soli, gli altri possono facilitare, fare il tifo ma mai sostituirsi completamente, La risposta verrà col tempo, con la preghiera, con il coraggio. L'importante è "avviare un processo".
Questo libro è la storia compiuta di un "processo" che si è realizzato pienamente dopo 53 anni.
Gemma Calabresi Milite, La crepa e la luce, Mondadori (Strade Blu), Milano 2022, pp. 144, 17,50€ (Oscar Mondadori, Milano 2023, 12,50 €)
Ebook Kindle: 7,99€
Audiolibro audible: 9,99€
(1) Pare che la frase sia una sintesi del Discorso 306 B, dove il vescovo di Ippona descrive i tre tipi di viandanti non adeguati al cammino verso il compimento della speranza. È una via che «detesta tre categorie di uomini: chi si ferma, chi torna indietro e chi devia». Si tratta di una semplificazione poco corretta, un taglia e incolla che mette assieme cose diverse. Agostino si opponeva ai pelagiani, quelli che pensavano di salvarsi da soli e solo con le proprie forze, quindi proprio quelli che avrebbero potuto essere contenti di una così centrata sull'agire isolato dell'individuo. Tuttavia il contesto (che implica senz'altro anche l'andare avanti, il non retrocedere e non perdere la via) è quello di un movimento che prima che di piedi è d'amore e che è condiviso dal sostegno reciproco dei fratelli nella Chiesa.
La frase verrà usata da (o forse solo attribuita a) tanti, a San Giovanni della Croce, a Goethe, a Madre Teresa di Calcutta, diventando addirittura un meme sui social, con il commento: "non mollare mai".
Suggerimento: bisogna stare attenti ad assolutizzare citazioni fuori contesto, specialmente quelle dei geni.
Ci sono diversi video in rete di incontri pubblici recenti con Gemma Calabresi, nei quali ripercorre lo stesso racconto del libro. Per essere d'aiuto vederne qualcuno. Consiglio la conversazione con Aldo Cazzullo in un incontro dell'8 marzo 2022 promosso dal Centro Culturale di Milano e dalla Mondadori presso l'Auditorium San Fedele di Milano
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